Fisica Della Birra: Principi Fisici Dell’Arte Brassicola

La birra non è solo il frutto di ricette e tradizioni millenarie, ma anche di leggi scientifiche ben precise. Dietro ogni boccale si nasconde infatti un mondo di fisica della birra: dalla bollitura del mosto alla schiuma nel bicchiere, ogni fase dell’arte brassicola è influenzata da principi fisici fondamentali. In questo articolo esploriamo come temperatura, pressione, fluidodinamica e altri fenomeni intervengano nel processo produttivo e nella degustazione della birra. Capire questi aspetti scientifici ci aiuta ad apprezzare ancora di più il lavoro dei mastri birrai e la qualità di una buona birra artigianale1. Prepariamoci dunque a un viaggio affascinante tra bollitori, fermentatori e bicchieri, per scoprire come la fisica accompagna ogni sorso.

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Il ruolo della temperatura nella produzione della birra

Il controllo della Ammostamento è uno dei pilastri della produzione brassicola. Ogni fase, dalla preparazione del mosto fino al servizio nel bicchiere, è legata a stretto filo con la termodinamica. Durante l’ammostamento, ad esempio, il birraio mantiene il mosto a temperature precise (tipicamente intorno ai 65-68°C) per attivare gli enzimi del malto. Questi enzimi lavorano in un intervallo termico ristretto: pochi gradi di differenza possono modificare l’efficienza di estrazione degli zuccheri. Un mash troppo freddo rischia di lasciare amidi non convertiti, mentre uno troppo caldo può inattivare gli enzimi e compromettere la fermentabilità del mosto10. Ecco perché nei manuali di produzione si insiste sulla precisione della temperatura in questa fase cruciale.

Dopo il mash, si passa all’ebollizione del mosto. Qui la fisica entra in gioco attraverso la convezione e i cambi di fase. Il mosto viene portato a 100°C e mantenuto in bollitura vigorosa per circa un’ora. Questo processo ha diversi scopi: sterilizzare il liquido, estrarre gli alfa-acidi amaricanti dal luppolo e concentrare il mosto tramite evaporazione10. L’ebollizione attiva correnti convettive nel tino: il liquido caldo sale al centro e ridiscende lungo le pareti più fredde. In questo turbinio, le sostanze indesiderate (come le proteine coagulate) si aggregano e vengono poi rimosse. Inoltre, la bollitura costante garantisce un’evaporazione uniforme dell’acqua; il vapore che vediamo uscire dal bollitore è un chiaro esempio di cambio di stato (da liquido a gas) indotto dall’energia termica. In alta quota, dove la pressione atmosferica è più bassa, il mosto bolle a temperature leggermente inferiori ai 100°C, ma i birrai sanno compensare prolungando un po’ i tempi per ottenere gli stessi risultati.

Dopo aver spento la fiamma, entra in gioco il raffreddamento rapido. Portare il mosto bollente a temperatura di fermentazione (intorno a 18-20°C per i lieviti Ale o 8-12°C per i lieviti Lager) nel più breve tempo possibile è fondamentale. Dal punto di vista fisico, significa dissipare calore da un liquido caldo a un fluido più freddo (acqua o glicole) attraverso uno scambiatore di calore. Un raffreddamento efficace sfrutta la conduzione termica: pareti metalliche del wort chiller favoriscono il passaggio del calore dal mosto all’acqua di raffreddamento. Questo abbattimento termico rapido evita la formazione di composti sgradevoli come il DMS (dimetilsolfuro) e riduce il tempo in cui il mosto, ancora privo di alcol e luppolo isomerizzato in quantità sufficiente, è vulnerabile a contaminazioni. Chi produce a casa sa bene quanto sia essenziale un buon serpentino o scambiatore a piastre per ottenere un calo di temperatura veloce10.

Anche durante la fermentazione la temperatura va tenuta sotto controllo costante. La fermentazione alcolica è un processo esotermico: mano a mano che i lieviti trasformano gli zuccheri in alcol e CO₂, rilasciano calore. Ciò significa che, se si lascia fare alla natura, un fermentatore da 20°C può salire di diversi gradi in piena attività fermentativa. Un aumento eccessivo può stressare i lieviti e produrre aromi sgradevoli (come alcoli fuselici). Per questo i birrifici artigianali utilizzano fermentatori con camicie di raffreddamento o sistemi di controllo termostatico, in modo da smaltire il calore prodotto dai lieviti e mantenere costante la temperatura ottimale per quello specifico ceppo di lievito10. Ad esempio, una Ale inglese potrebbe fermentare a 20°C per sviluppare i giusti esteri fruttati, mentre un lager richiede temperature più basse e stabili per un profilo pulito. In entrambi i casi, la termoregolazione assicura che le reazioni biochimiche procedano al ritmo desiderato.

La fisica della temperatura continua a essere protagonista anche dopo la fermentazione. Molti birrai praticano il cold crashing: abbassano drasticamente la temperatura della birra giovane, portandola vicino a 0°C per alcuni giorni10. Grazie a questo colpo di freddo, lieviti e proteine coagulate precipitano più rapidamente sul fondo per effetto della gravità, schiarendo la birra. Questo è possibile perché la solubilità di certi composti diminuisce con il freddo e la maggiore densità delle particelle solide rispetto al liquido le fa sedimentare. Nei birrifici lager tradizionali, un raffreddamento prolungato – la Lagerizzazione – permette una chiarificazione naturale e una maturazione dei sapori: a basse temperature le ultime sostanze indesiderate si depositano e la birra si affina, acquisendo quella limpidezza e stabilità tipica delle lager tedesche10.

Infine, quando la birra arriva nel bicchiere, la temperatura incide sull’esperienza di bevuta. Ogni stile ha una temperatura di servizio ideale: le lager leggere si gustano a temperature più basse (4-6°C) per esaltarne la freschezza, mentre birre complesse come le trappiste o le stout danno il meglio a 10-12°C o oltre, dove sprigionano tutti gli aromi. Questo fenomeno ha una spiegazione fisica: a temperature più alte le molecole aromatiche evaporano più facilmente, liberando profumi intensi, e la CO₂ disciolta tende a uscire più rapidamente formando bollicine e Schiuma. Al contrario, una birra servita ghiacciata trattiene di più l’anidride carbonica (meno schiuma) e anestetizza papille e olfatto, smorzando sia difetti che pregi. Bilanciare la temperatura giusta è quindi un atto di equilibrio tra fisica e gusto. Per approfondire come valorizzare ogni stile alla giusta temperatura, può essere utile consultare una risorsa dedicata alla temperatura di servizio della birra artigianale2. In sintesi, dal termometro di ammostamento al termostato del fermentatore, la gestione della temperatura accompagna ogni fase della birrificazione.

Pressione e carbonazione: il gas nella birra

Una birra ben fatta non è solo liquido: è anche gas disciolto. L’anidride carbonica (CO₂) presente nel bicchiere è responsabile delle bollicine e della vivace sensazione frizzante al palato. Capire come la CO₂ entra e rimane nella birra significa addentrarsi nei principi di pressione e solubilità dei gas. La CO₂ si forma naturalmente durante la fermentazione alcolica: per ogni mole di glucosio convertita, i lieviti producono due molecole di etanolo e due di CO₂. In un fermentatore aperto o dotato di gorgogliatore, la maggior parte di questo gas sfoga nell’aria. Nei metodi tradizionali, però, i birrai sfruttano parte della CO₂ prodotta per Carbonazione la birra in modo naturale. Imbottigliare la birra prima che la fermentazione sia del tutto conclusa, oppure aggiungere un piccolo quantitativo di zucchero al momento dell’imbottigliamento (pratica nota come priming), consente ai lieviti residui di fermentare dentro la bottiglia chiusa. La CO₂ prodotta in questo spazio ermetico non potendo uscire aumenta la pressione interna e si scioglie nel liquido. Questo processo, chiamato condizionamento in bottiglia, è alla base di molte birre rifermentate in bottiglia come le trappiste belghe. Il risultato? Una birra naturalmente frizzante, con un perlage fine, e un leggero strato di lievito sul fondo come firma della rifermentazionegeopop.it. Per chi volesse approfondire i dettagli e i vantaggi di questo metodo tradizionale, è disponibile una guida sul condizionamento in bottiglia3.

Accanto al metodo tradizionale, nell’industria birraria moderna è diffusissima la carbonatazione forzata. In questo caso la birra, terminata la fermentazione, viene posta in un serbatoio a tenuta e satura di CO₂ proveniente da bombole esterne. Qui entra in gioco la legge di Henry: un gas disciolto in un liquido a una certa temperatura avrà una concentrazione proporzionale alla pressione parziale del gas sopra il liquido. In parole povere, pompare CO₂ ad alta pressione sopra la birra fa sì che molta più CO₂ si sciolga all’interno. E più la birra è fredda, maggiore è la quantità di gas che vi si dissolve (la solubilità dei gas aumenta con il diminuire della temperatura)bigthink.com. I birrai sfruttano questo principio mantenendo la birra fredda (0-4°C) nel fermentatore saturo di CO₂ a qualche bar di pressione, finché non si raggiunge il livello di carbonazione voluto. Ogni stile ha un suo target in termini di volume di CO₂: ad esempio una Weissbier tedesca può avere anche oltre 3 volumi di CO₂ (molto frizzante), mentre una English Ale tradizionale resta su 1-1,5 volumi. La carbonazione forzata permette di ottenere con precisione il livello desiderato di gas, ed è molto più rapida (qualche giorno al massimo) rispetto alle settimane di rifermentazione in bottiglia. Una volta saturata, la birra viene confezionata in fusti o bottiglie isobariche, sigillate per trattenere la pressione interna. Chiunque abbia stappato una bottiglia sentendo il caratteristico pssht iniziale ha sperimentato gli effetti della pressione: aprendo il tappo si riduce bruscamente la pressione sopra il liquido, la CO₂ non è più trattenuta e inizia immediatamente a uscire formando bollegeopop.it.

La pressione gioca un ruolo chiave anche al momento del servizio della birra, soprattutto alla spina. Nei sistemi di spillatura, i fusti sono contenuti in impianti sotto pressione di CO₂ o di una miscela di gas (come la miscela azoto/CO₂ per alcune stout). La lancetta del manometro sul riduttore di pressione viene regolata per trovare un equilibrio: bisogna spingere la birra fuori dal fusto con abbastanza pressione da farla arrivare al rubinetto, ma senza eccessi che causerebbero solo schiuma nel bicchiere. Tipicamente, pressioni intorno a 1 bar sopra l’atmosferica sono comuni nei fusti, ma variano a seconda della lunghezza delle linee di spillatura e del livello di CO₂ disciolta. Anche qui c’è molta fisica applicata: la caduta di pressione lungo i tubi, la schiuma che si forma se il salto di pressione è troppo repentino, ecc. I publican esperti inclinano il bicchiere e aprono il rubinetto con decisione proprio per gestire queste variabili fisiche ed evitare di servire birra sgasata o, al contrario, solo schiumageopop.it. Inoltre, i fusti e gli impianti devono essere costruiti per sopportare le pressioni in gioco: materiali robusti e collaudati evitano pericolosi scoppi.

Una menzione a parte merita l’azoto (N₂), utilizzato in alcune birre come Stout e Cream Ale. L’azoto si dissolve nella birra in quantità molto minore rispetto alla CO₂ (circa 80 volte meno solubile) e crea bollicine piccolissime. Per ottenere la tipica crema compatta delle stout alla spina, si usano miscele con circa il 70-75% di N₂ e spillatori speciali dotati di restrittori: la birra viene forzata attraverso minuscoli fori che fanno precipitare l’azoto fuori dal liquido, formando la densa schiuma a cascata. La pressione di esercizio in questo caso è più alta (anche 2-3 bar nel fusto) perché serve forza extra per spingere fuori la birra attraverso il restringimento. Il risultato è una schiuma setosa e persistente, con bolle così fini che la birra assume quel tipico aspetto “a azoto” quasi cremoso. Questo ci ricorda che la scelta del gas e della pressione modifica direttamente le proprietà organolettiche: CO₂ per effervescenza e acidità carbonica, N₂ per morbidezza e cremosità. Non a caso, gli amanti delle birre corpose apprezzano molto le birre cremose servite con miscele di gas in cui l’azoto è protagonista4.

È interessante osservare la fisica anche in situazioni limite. Se una birra viene fatta rifermentare con troppo zucchero, la pressione in bottiglia può salire ben oltre i limiti, con esiti disastrosi: vetri che esplodono come fossero piccoli petardi (bottle bombs). Questo succede perché ad ogni incremento di CO₂ disciolta corrisponde un forte aumento della pressione interna, e le bottiglie standard non reggono oltre una certa soglia. Viceversa, in assenza di sufficiente pressione, la birra risulterà piatta e poco vivace. Anche l’ambiente esterno conta: aprire una bottiglia in montagna (pressione atmosferica più bassa) farà uscire la CO₂ più tumultuosamente che al livello del mare, per via del maggiore gradiente di pressione. Tutti questi esempi mostrano come le leggi dei gas (come la relazione tra pressione, volume e temperatura del gas racchiusa nell’equazione di stato) non siano concetti astratti, ma vivano dentro ogni fusto e ogni bottiglia di birra.

In sintesi, la carbonazione della birra è un equilibrio di forze: pressione esercitata, temperatura di gestione e tempo a disposizione. I mastri birrai sfruttano tecniche diverse – dalla rifermentazione naturale alla carbonazione forzata – ma in ogni caso devono comprendere e dominare i principi fisici coinvolti. Il risultato finale è la giusta quantità di bollicine che danzano nel bicchiere, pronte a trasportare aromi al nostro naso e a solleticare il palato.

Fluidodinamica nel birrificio: come si muove la birra

Nei birrifici la birra (o il mosto) è costantemente in movimento: viene mescolata, pompata, filtrata e travasata. La Fluidodinamica studia proprio il movimento dei fluidi, e nel contesto brassicolo ha applicazioni pratiche ovunque ci sia un liquido in gioco. Pensiamo alla fase iniziale di filtrazione delle trebbie, la cosiddetta lautering: dopo il mash, il mosto zuccherino deve essere separato dai grani esausti. Questo avviene facendo percolare il liquido attraverso il letto di trebbie che si deposita sul fondo del mash tun. Qui la gravità la fa da padrona: aprendo una valvola sul fondo, il mosto fluisce verso il recipiente successivo, mentre le trebbie fungono esse stesse da letto filtrante naturale, trattenendo le particelle solide. La chiave per un lautering efficiente è un flusso controllato: se si estrae il mosto troppo velocemente, si rischia di creare canali preferenziali (il liquido scava “tunnel” nel letto di grani) e di estrarre in modo non uniforme. Se invece il flusso è troppo lento o bloccato, si può compattare il letto filtrante e interrompere il flusso (effetto stuck mash). Il birraio dunque regola con attenzione la valvola per mantenere un drenaggio regolare e continuo. Spesso si effettua anche un recircolo (detto vorlauf): si preleva il mosto dalle prime frazioni torbide e lo si versa nuovamente sopra il letto di grani, in modo delicato, per compattarlo e migliorare la filtrazione. Per approfondire meccanismi e accorgimenti di questa fase, c’è una guida dedicata al lautering5.

Un’altra operazione fluidodinamica cruciale è lo sparging, ossia il risciacquo delle trebbie con acqua calda una volta raccolto il primo mosto. L’acqua viene spruzzata uniformemente sopra il letto di grani per lisciviare gli zuccheri residui. Anche qui si tratta di far percolare un fluido attraverso un mezzo poroso. Il birraio deve distribuire l’acqua il più uniformemente possibile, spesso con doccette o bracci spruzzatori, per evitare di concentrare il flusso in un solo punto (che causerebbe, di nuovo, canali preferenziali). Fisicamente, è un processo di estrazione percolativa simile a quello del caffè filtro, con l’acqua che attraversa il “panello” di trebbie. La velocità e la temperatura dell’acqua di sparging influenzano il rendimento: acqua troppo fredda rischia di lasciare zucchero indietro, acqua troppo calda (sopra ~78°C) può estrarre tannini astringenti dalle bucce dei cereali. I principi di trasferimento di massa qui vanno a braccetto con la fluidodinamica: occorre il giusto tempo di contatto tra liquido e solido per estrarre gli zuccheri senza composti indesiderati. Una tecnica di sparging ben eseguita fa la differenza tra una birra dal buon corpo e una annacquata, e può essere approfondita in sezioni specifiche dei manuali o in articoli come “sparging: caratteristiche e tecniche”6.

Durante la bollitura, il mosto è in movimento costante per convezione come abbiamo visto, ma terminata la bollitura si applica un accorgimento fluidodinamico intelligente: il whirlpool. Consiste nel creare un vortice nel mosto caldo mediante un ingresso tangenziale del liquido (o con una rapida agitazione meccanica). Il liquido in rotazione genera una forza centrifuga che spinge le particelle solide (residui di luppolo, proteine coagulate detti trub) verso il centro e il fondo del tino, formando il caratteristico “cono di luppolo”. Dopo qualche minuto di quiete, il mosto può essere prelevato lateralmente risultando molto più limpido, poiché la maggior parte dei solidi si è raccolta al centro. È un’applicazione pratica delle forze centripete e dell’effetto dei vortici sulla separazione delle fasi: un esempio di come i birrai usino la fisica per chiarificare il mosto senza filtri aggiuntivi. Molti birrifici moderni hanno vasche apposite per il whirlpool, ma il principio è lo stesso anche su scala casalinga mescolando vigorosamente e lasciando decantare. Per chi fosse interessato ai dettagli, l’articolo “whirlpooling: caratteristiche e funzionamento”7 spiega bene questa tecnica e i suoi benefici sulla qualità del mosto.

Un altro aspetto di fluidodinamica birraria è il trasferimento dei liquidi tra vasi comunicanti, spesso per caduta o mediante pompe. Nei birrifici tradizionali a gravità, le varie caldaie sono disposte a diversi livelli: si sfrutta la forza di gravità per far scorrere il mosto dall’alto verso il basso, senza bisogno di pomparlo. Ad esempio, si può avere il tino d’ammostamento al piano superiore, il tino di bollitura sotto, e il fermentatore ancora più in basso (sistema a tre livelli). Il vantaggio è un flusso dolce e costante, senza rischio di introdurre ossigeno o agitare troppo il liquido caldo. La birra a caduta – come viene chiamata la birra servita direttamente per gravità dal cask senza l’ausilio di CO₂ – incarna questo principio anche al momento del consumo: la botte viene inclinata e la birra esce semplicemente per differenza di altezzageopop.it. Questa modalità, tipica delle real ale inglesi, evita turbolenze e aggiunte forzate di gas, offrendo una carbonazione leggera e naturale. Per saperne di più sul fascino di servire la birra a caduta e la fisica che la rende possibile, rimandiamo a un approfondimento dedicato8.

Nei moderni birrifici, tuttavia, non sempre è possibile affidarsi alla gravità: spesso si usano pompe per spostare il mosto o la birra da un recipiente all’altro. Anche qui bisogna gestire flussi e turbolenze. Ad esempio, quando si trasferisce la birra fermentata in un tank di maturazione o direttamente in fusto, occorre evitare di ossigenarla. L’ossigeno, se introdotto nella birra finita, può ossidare composti aromatici e rovinare il gusto. Dal punto di vista fluidodinamico, ciò significa mantenere un flusso il più laminare possibile, senza spruzzi o cascate. Si utilizzano tubi riempiti completamente (niente gorgoglii d’aria), si impiegano pompe a basso shear (che non “sbattono” il liquido) come le pompe a girante flessibile o a lobi, e si fanno uscire i liquidi dal basso dei fermentatori tramite valvole apposite per minimizzare il contatto con l’aria. Tutte soluzioni tecniche per rispettare un principio fisico: un flusso turbolento facilita lo scambio gas-liquido e quindi l’ossigenazione, mentre un flusso laminare lo impedisce. Questo è il motivo per cui il semplice atto di versare la birra può essere fatto in modi diversi a seconda del risultato desiderato: versare lentamente lungo la parete del bicchiere produce un flusso laminare e pochissima schiuma (utile se non si vuole sgasare troppo la birra), mentre versare più vigorosamente al centro del bicchiere genera turbolenza, favorendo la fuoriuscita della CO₂ e quindi la formazione del cappello di schiuma. Non c’è magia, solo fluidodinamica.

Infine, consideriamo la filtrazione e chiarificazione, aspetti in cui fluidodinamica e proprietà dei materiali si incontrano. Dopo la fermentazione, molte birre artigianali vengono lasciate decantare e poi imbottigliate tal quale (saranno birre non filtrate, con un aspetto magari opalescente). Altre vengono filtrate per ottenere un aspetto limpido e brillante. Il filtro può essere a piastre, a farina fossile (diatomite) o a membrana, ma in tutti i casi il principio è far passare la birra attraverso un materiale poroso che trattiene le particelle sopra una certa dimensione. La birra viene spinta in questi filtri in genere con una pompa, a pressione moderata. Bisogna bilanciare la portata (flusso) con la capacità filtrante: se si spinge troppo forte, si rischia di rompere le particelle e intasare prematuramente il filtro; se troppo piano, il processo diventa interminabile. Un esempio comune nel caso della filtrazione della birra è l’uso di filtri a diatomite: la terra fossile agisce come milioni di minuscoli setacci intrappolando lievito e sedimenti, mentre la birra limpida li attraversa. Si tratta di un’operazione tecnica ma comprensibile fisicamente: particelle più grandi dei pori vengono bloccate, quelle più piccole passano. Una riflessione interessante è che filtri troppo “stretti” (maglie fini) tolgono anche parte di composti che incidono su gusto e corpo, non solo i residui visibili. Ecco perché molte birre artigianali non filtrate conservano un profilo aromatico più ricco ma appaiono velate: è una scelta precisa di sacrificare l’estetica cristallina in favore della pienezza di sapore. Per approfondire questo tema e capire le differenze tra i prodotti, consigliamo l’articolo “Differenza tra birra filtrata e birra non filtrata: tutto quello che c’è da sapere”9.

Schiuma e bollicine: la scienza del cappello di birra

La schiuma della birra non è solo un elemento estetico, ma una componente fondamentale che influenza l’esperienza sensoriale. È formata da bollicine di CO₂ che si liberano quando la birra viene versata, intrappolate in una rete di proteine del malto e composti del luppolo come gli alfa-acidi. Questo reticolo liquido-gassoso è stabilizzato da molecole tensioattive, che riducono la tensione superficiale e impediscono alle bolle di scoppiare rapidamente. La formazione della schiuma dipende da diversi fattori fisici: la quantità di CO₂ disciolta (livello di carbonazione), la temperatura della birra, la tecnica di spillatura e persino la forma e la pulizia del bicchiere. Ad esempio, un bicchiere con micro-imperfezioni (siti di nucleazione) facilita la formazione di bolle, mentre un bicchiere troppo liscio o sporco di grasso (che riduce la tensione superficiale) produce meno schiuma o una schiuma instabilegeopop.it.

La schiuma non è solo decorativa: protegge la birra dall’ossigeno atmosferico, che potrebbe ossidare gli aromi e alterarne il gusto; contribuisce a liberare gradualmente le molecole odorose, amplificando il bouquet aromatico; e aggiunge una sensazione cremosa al palato, rendendo la birra più “morbida” e bilanciando l’amaro. La qualità della schiuma varia tra gli stili: una Pilsner avrà una schiuma densa e compatta, una Weissbier una schiuma alta e vaporosa, una Stout alla spina con azoto una crema densa e vellutata. Ogni stile ha il suo “cappello” ideale, e ottenere la schiuma perfetta è una forma d’arte che i birrai e i publican affinano con cura. La scelta del bicchiere gioca un ruolo cruciale: un calice a tulipano per una IPA trattiene gli aromi e sostiene una schiuma moderata, mentre un boccale per una Pilsner favorisce una schiuma abbondante e persistente. Per chi volesse approfondire tutti questi aspetti legati alla schiuma – dalla scienza alla tradizione – il nostro blog offre un articolo completo: “Perché la birra fa la schiuma: tutto quello che c’è da sapere”10. Vi troverete spiegazioni dettagliate e curiosità storiche, come ad esempio il fatto che già i Sumeri più di 4000 anni fa apprezzavano la “barba della birra” (cioè la schiuma) considerandola segno di bontà10.

In definitiva, la schiuma della birra rappresenta un perfetto equilibrio tra arte e scienza. È bella da vedere, buona da gustare e scientificamente affascinante da studiare. La prossima volta che vi troverete di fronte a un boccale schiumoso, potrete osservarne il cappello bianco con occhi diversi, sapendo quante piccole meraviglie fisiche stanno accadendo in ogni bollicina.

Luce, colore e contenitori: fisica e aspetto della birra

L’esperienza visiva è una parte fondamentale della degustazione: il colore della birra e la limpidezza ci danno già indizi sullo stile e sul sapore. Ma da cosa dipendono questi aspetti? In gran parte dalle materie prime e dai processi chimici (maltazione, tostatura, reazioni di Maillard durante la bollitura che creano pigmenti scuri). Tuttavia, l’ottica e la fisica hanno il loro ruolo nel modo in cui percepiamo il colore e come la birra interagisce con la luce.

Innanzitutto il colore che vediamo è determinato dalla luce assorbita e riflessa dal liquido. Una birra dorata appare tale perché il liquido lascia passare le lunghezze d’onda giallo-oro della luce e assorbe altre frequenze. Birre più scure contengono molecole (melanoidine, polifenoli ossidati, ecc.) che assorbono gran parte della luce visibile, per cui arriva ai nostri occhi solo una frazione (tipicamente le componenti rosso-brune per le ambrate, e praticamente nulla per le nere opache). La scala EBC (European Brewery Convention) usata per misurare il colore della birra è basata su un metodo fotometrico: si fa passare luce a 430 nm attraverso la birra e se ne misura l’assorbanza. Un EBC basso (birra chiara) significa poca assorbanza, uno alto (birra scura) significa che la birra assorbe molto quella luce blu-violetta. In pratica, è una quantificazione scientifica di ciò che percepiamo con gli occhi. Molti birrifici riportano il valore di colore (EBC o l’equivalente americano SRM) sulle schede tecniche. Se siete curiosi di sapere di più su come funziona questa misurazione, potete leggere “EBC della birra: cos’è, come funziona e a cosa serve”11, dove si spiega in dettaglio il metodo e la sua importanza.

Un altro fenomeno fisico legato all’aspetto è la turbidità o limpidezza. Una birra è limpida quando non contiene particelle in sospensione grandi a sufficienza da diffondere significativamente la luce. Al contrario, una birra opalescente o torbida contiene microparticelle (lievito, proteine, luppolo in sospensione) che diffondono la luce in tutte le direzioni, impedendo una visione nitida attraverso il bicchiere. Questo è un classico esempio di diffusione ottica: è lo stesso motivo per cui il latte appare bianco (grassi e proteine diffondono la luce) mentre l’acqua pura è trasparente. Nelle birre, la presenza di lievito non sedimentato o di farine di cereali (ad esempio nelle Weissbier tedesche o nelle moderne NEIPA molto luppolate) porta a questa opalescenza. Non c’è nulla di sbagliato: è una caratteristica stilistica voluta. Tuttavia, se una birra dovrebbe essere limpida per stile ma appare torbida, potrebbe indicare un problema di produzione o un beerstone (deposito) in bottiglia. Per chi vuole capire i pro e contro della limpidezza, ecco di nuovo utile il confronto tra birre filtrate e non: come già citato, la differenza tra birra filtrata e non filtrata9 non è solo estetica ma anche gustativa, e la scelta dipende dagli obiettivi del birraio.

Passando dai liquidi ai contenitori, un elemento spesso trascurato ma importantissimo è il vetro delle bottiglie. Perché molte birre sono in bottiglie di vetro marrone o verde? La risposta sta nella fisica della luce e nei suoi effetti chimici sulla birra. La luce ultravioletta e parte della luce visibile (soprattutto il violetto e il blu) forniscono energia a certe reazioni chimiche che coinvolgono gli iso-alfacidi del luppolo. In presenza di luce, questi composti possono degradarsi e reagire con sostanze contenenti zolfo formando composti solforati indesiderati (quelli responsabili del famigerato “gusto di luce” o odore di skunk, simile a quello del proverbiale moffetta)geopop.it. Ebbene, il vetro marrone blocca circa il 98% della luce UV e gran parte di quella blu, proteggendo la birra da questo effetto fotolitico. Il vetro verde offre una protezione molto più bassa, e il vetro trasparente praticamente nulla (motivo per cui certe birre commerciali in bottiglia chiara usano estratti di luppolo modificati chimicamente per non produrre composti skunk). Dunque, l’uso di bottiglie scure è una soluzione tecnica adottata dall’industria fin dal primo Novecento per allungare la shelf-life del prodotto. Se avete mai lasciato una birra chiara al sole e poi l’avete assaggiata notando un odore sgradevole di “gomma bruciata” o “uovo marcio”, avete sperimentato cosa succede senza questa protezione. Sul nostro blog trovate un articolo dedicato proprio a spiegare perché le bottiglie di birra sono verdi, marroni o scure12: dalla storia (un tempo il vetro scuro era semplicemente il più economico) alla scienza (protezione dalla luce) fino alle curiosità di marketing dietro certi colori iconici.

Oltre al colore del vetro, anche le modalità di conservazione sfruttano accorgimenti fisici: tenere la birra al fresco e al buio è la regola d’oro per mantenerla buona. Fresco per rallentare le reazioni chimiche (cinetica chimica più lenta a basse temperature, altra lezione di termodinamica pratica) e buio per i motivi detti sopra. Ad esempio, se avete una cantina, sappiate che una temperatura stabile intorno ai 12°C e l’assenza di luce diretta sono l’ideale per conservare bottiglie di birra artigianale, specialmente quelle rifermentate che possono evolvere nel tempo. Ci sono risorse che spiegano come conservare correttamente le bottiglie di birra13, incluso se sia meglio in piedi o sdraiate (di solito in piedi, per limitare il contatto della birra col tappo). Tutte queste attenzioni rientrano in una sorta di “fisica della dispensa”: tenere sotto controllo luce, temperatura e posizione per garantire che la birra nel bicchiere sia esattamente come il birraio l’aveva pensata.

Un ultimo spunto sull’aspetto: avete mai notato le variazioni di colore all’interno dello stesso bicchiere di birra? Le birre scure sembrano nere se osservate in massa nel boccale, ma contro la luce, in strati sottili vicino al bordo, rivelano sfumature rubino o marroni. Questo è un classico effetto di assorbanza: su spessori piccoli la luce riesce a passare, su spessori grandi viene quasi totalmente assorbita. È un po’ come il vetro affumicato delle maschere da saldatore, che è trasparente se guardato di taglio ma opaco se guardato frontalmente. Così una Imperial Stout può mostrare bellissimi riflessi rossi al sole nei bordi del bicchiere, pur restando impenetrabile al centro. Anche questo aggiunge fascino alla degustazione: la birra “cambia colore” a seconda di come la guardiamo e della luce disponibile. In degustazione spesso si inclina il bicchiere e si guarda il liquido sui bordi per apprezzare meglio le tonalità. Alcune guide come “Dall’ambrata alla nera: il colore della birra”14 forniscono esempi e classificazioni delle varie sfumature che si possono incontrare, dal giallo paglierino delle lager Pilsner al nero pece delle stout.

In sintesi, l’aspetto della birra che tanto ci attrae è plasmato da fenomeni fisici (interazioni luce-materia) e da accorgimenti tecnici (vetri colorati, filtrazioni). Sapere che dietro quel bel colore ramato c’è la misurazione in EBC, o che la brillantezza di una pils deriva anche da un’attenta lagerizzazione e filtrazione, ci fa apprezzare ancora di più il contenuto del nostro calice. Dopotutto, anche l’occhio (e un po’ la scienza) vuole la sua parte.

Densità e strumenti di misura nella birra

La birra, oltre a essere bevuta, viene anche misurata in vari modi durante la produzione. Molte di queste misure hanno basi fisiche: pensiamo alla densità del mosto, alla gradazione alcolica, all’amaro in IBU, al colore in EBC di cui si è detto. In particolare, la densità (o gravità specifica) è un parametro chiave che i birrai monitorano dall’inizio alla fine del processo. La densità del mosto prima della fermentazione, detta densità originale (OG), indica quanta materia (principalmente zuccheri) è disciolta nel liquido. Dopo la fermentazione si misura la densità finale (FG), più bassa perché i lieviti hanno consumato gli zuccheri producendo alcol (che è meno denso dell’acqua) e CO₂. La differenza tra OG e FG permette di calcolare la quantità di alcol prodotta, sfruttando formule empiriche: in pratica, dalla perdita di densità si risale ai grammi di etanolo generati, ottenendo la gradazione alcolica ABV (Alcohol By Volume)bigthink.com. Questo calcolo sfrutta un principio fisico semplice: l’Architettura di Archimede e i bilanci di massa. La densità si misura tipicamente con due strumenti: il densimetro (o idrometro) e il rifrattometro.

Il densimetro è forse lo strumento più iconico del birraio: un galleggiante tarato che, immerso nel liquido, affonda più o meno a seconda della densità di quest’ultimo. Il suo funzionamento è un’applicazione diretta del principio di Archimede: un corpo immerso in un fluido riceve una spinta verso l’alto pari al peso del volume di fluido spostato. Il densimetro è calibrato in modo che l’altezza a cui emerge sull’acqua pura corrisponda a una certa lettura (1,000 in unità di gravità specifica a 20°C). In un mosto zuccherino più denso dell’acqua, il densimetro galleggerà più in alto, indicando ad esempio 1,050 (cioè il mosto ha densità 1,050, pari a 50 punti Plato circa 12,5 °P). Durante la fermentazione, man mano che la densità scende, il densimetro affonderà di più. Per una lettura accurata occorre però correggere la temperatura: le scale sono riferite a 20°C, e un liquido caldo essendo meno denso falserebbe la lettura. È dunque necessario raffreddare il campione o applicare correzioni note (per qualche grado di differenza, le tabelle vengono in aiuto). Misurare la densità è fondamentale per il birraio: gli dice se tutto lo zucchero desiderato è stato estratto (OG prevista), se la fermentazione sta progredendo (densità in calo) e quando si è conclusa (FG stabile su più giorni). Inoltre consente, come detto, di calcolare l’alcol prodotto. A chiunque inizi a produrre birra in casa si consiglia di procurarsi un densimetro e imparare a usarlo: non è solo uno strumento, è il termometro della salute del nostro fermentato. Nel nostro sito abbiamo una guida completa agli strumenti di misura per la birra artigianale15, dove spieghiamo non solo il densimetro ma anche il rifrattometro, il pHmetro e altri dispositivi utili al birraio.

Il rifrattometro è un altro gadget molto usato, soprattutto per misurare il mosto prima della fermentazione. Esso sfrutta un fenomeno ottico: la rifrazione della luce. La luce cambia direzione quando passa da un mezzo a un altro (ad esempio dall’aria a un liquido) in funzione dell’indice di rifrazione del mezzo stesso. Soluzioni più zuccherine hanno indice di rifrazione maggiore (devono piegare di più la luce). Il rifrattometro portatile permette con poche gocce di mosto di leggere direttamente i gradi Plato (o Brix) su una scala, guardando attraverso un oculare verso una fonte luminosa. È molto comodo perché richiede un campioncino minimo e restituisce subito il valore, senza dover raffreddare grandi quantità di liquido. Tuttavia, c’è un risvolto: una volta che la fermentazione è iniziata e c’è alcol nel liquido, la lettura del rifrattometro è falsata (l’etanolo ha indice di rifrazione diverso dall’acqua). Esistono correzioni matematiche per ottenere la densità reale da una lettura di rifrattometro post-fermentazione, ma sono un po’ macchinose. Per questo molti preferiscono usare il densimetro per FG. Resta il fatto che il rifrattometro è un’applicazione interessante di fisica ottica nel birrificio.

Oltre a densità e alcol, i birrai misurano la quantità di amaro in IBU (International Bitterness Units). Anche qui c’è dietro una misurazione fisico-chimica: in laboratorio l’IBU si determina estraendo gli alfa acidi isomerizzati con un solvente e misurando l’assorbanza UV a 275 nm di questa soluzione. Insomma, persino l’amaro ha un numero grazie alla spettrofotometria. Chiaramente in un birrificio artigianale non ci si spinge a fare l’analisi UV, si usa piuttosto il calcolo teorico (basato sui luppoli aggiunti, i tempi di bollitura e la resa). Ma sapere che volendo si può misurare fisicamente anche una percezione gustativa come l’amarezza fa capire quanto avanzati siano diventati i metodi di controllo qualità. Per approfondire cos’è l’IBU e come viene determinato, potete leggere “IBU nella birra: significato, misurazione e ruolo nella produzione artigianale”16.

Un’altra grandezza fondamentale è il grado alcolico (ABV). Abbiamo detto come calcolarlo indirettamente da OG e FG, ma in laboratorio si può misurare direttamente distillando un campione e determinandone la densità alcolometrica (metodo ufficiale). Anche qui, niente di esoterico: si sfrutta la diversa volatilità dell’alcol e dell’acqua separandoli, poi si misura la densità del distillato alcolico con appositi densimetri tarati in % alcol. In alternativa, esistono strumenti digitali a oscillazione (densimetri elettronici di precisione) che danno il grado alcolico velocemente. In birrificio artigianale normalmente non serve tanta precisione: il metodo OG-FG è più che sufficiente e generalmente accurato entro qualche decimo di punto percentuale. Se volete scoprire di più su come si effettua questo calcolo empirico, vi rimandiamo alla nostra guida su come calcolare il grado alcolico della birra17, con esempi pratici.

Ci sono infine strumenti per la temperatura (termometri a sonda, termostati digitali collegati ai fermentatori), per il pH (cartine tornasole o pHmetri elettronici, utili a controllare l’acidità del mash e della birra finita) e persino per la pressione (manometri sui fermentatori se si fa fermentazione in pressione o spunding). Ogni parametro è tenuto sott’occhio per assicurare che i processi fisici e chimici vadano nella direzione voluta. Un termometro che segna 2°C in più può far scattare l’allarme durante la fermentazione di una lager; un pH troppo alto nel mash (oltre ~5.6) indica che bisogna correggere l’acqua o aggiungere malti acidi per ottimizzare l’ambiente enzimatico. Tutto il lavoro del birraio moderno è insomma assistito da misurazioni continue, come in qualsiasi processo industriale, anche se suona meno romantico delle descrizioni poetiche. Ma c’è un lato positivo: questi numeri e strumenti permettono di avere costanza e di spingere la qualità sempre più in alto, nel rispetto degli stili e della creatività. Un birraio con termometro e densimetro alla mano somiglia un po’ a uno scienziato in laboratorio, e difatti molti aspetti si sovrappongono. La bravura sta nel saper interpretare i dati – un po’ come leggere la musica dallo spartito – per poi tradurli in una sinfonia di sapori nel bicchiere.

Vale la pena menzionare che esistono anche apparecchiature sofisticate in alcuni birrifici: ad esempio sistemi per misurare l’ossigeno disciolto (fondamentali per evitare ossidazioni), oppure camere pressurizzate per testare la tenuta di schiuma, e via dicendo. Questi rientrano in ambito più professionale e, sebbene interessanti, esulano dalla portata di questo articolo. Ciò che conta è capire che dietro parole come “Plato”, “IBU”, “EBC”, “ABV” ci sono metodiche ben rodate e principi fisici/analitici precisi. Non sono numeri buttati lì, ma informazioni misurate o calcolate che aiutano a descrivere una birra in modo oggettivo.

In conclusione, la birra viene sì degustata con i sensi, ma prima ancora viene controllata con gli strumenti. Densità, temperatura, colore, pressione: tutto viene misurato e regolato. È un connubio perfetto tra la sensibilità artigianale e il rigore scientifico. Senza questi principi fisici e gli strumenti che li applicano, fare birra sarebbe un terno al lotto ogni volta. Invece, grazie alla scienza, la produzione brassicola è diventata ripetibile e migliorabile, pur lasciando spazio alla creatività sulle ricette. Il mastro birraio moderno tiene un piede nel laboratorio e uno nel birrificio, consapevole che ogni scelta – dalla temperatura di mash a come misurare l’OG – avrà un impatto tangibile sul risultato finale.

Conclusioni: la fisica al servizio dell’arte brassicola

Abbiamo intrapreso un viaggio attraverso i principi fisici dell’arte brassicola, scoprendo come la birra sia figlia non solo di ingredienti eccellenti e passione, ma anche di termometri, manometri e leggi naturali. Dietro ogni pinta di birra artigianale si nasconde un delicato equilibrio di forze: calore controllato al grado giusto, pressioni calibrate per trattenere le bollicine, fluidi condotti con dolcezza da un tino all’altro, fino alla schiuma perfetta che corona il bicchiere. I mastri birrai, talvolta inconsapevolmente, sono anche un po’ fisici: applicano concetti di termodinamica quando impostano la temperatura di fermentazione, usano la fluidodinamica quando disegnano l’impianto e scelgono tubi e valvole, sfruttano l’ottica scegliendo bottiglie scure per proteggere il loro prodotto e impiegano la meccanica e la gravità in ogni travaso.

Conoscere questi aspetti scientifici ci consente di apprezzare ancora di più il prodotto finale. Pensateci la prossima volta che gusterete una birra: la fresca fragranza che sentite è merito anche della schiuma e delle bollicine (pressione e tensione superficiale in azione), la limpidezza brillante o l’aspetto velato sono determinati da decisioni su filtrazione e tempi di maturazione (sedimentazione e diffusione della luce), il corpo e la gradazione sono il risultato di come gli zuccheri sono stati estratti e fermentati (trasferimento di calore nel mash e densità). Ogni sorso racconta non solo una storia di tradizione e territorio, ma anche un capitolo di fisica applicata alla birra.

Per i curiosi e gli appassionati, approfondire gli aspetti scientifici non toglie nulla alla magia della birra, anzi la accresce. Significa poter dialogare con il birraio comprendendo il perché di certe scelte tecniche, significa saper valutare meglio la qualità di ciò che beviamo (ad esempio riconoscendo una birra ossidata da come la luce l’ha colpita, o capendo perché una IPA va consumata fresca per non perdere aromi volatili). La conoscenza è potere, anche quando si parla di bionde, rosse o scure nel bicchiere.

Ci auguriamo che questo viaggio nella fisica della birra vi abbia intrattenuto e incuriosito. L’argomento è vasto e affascinante: abbiamo toccato la superficie delle schiume, delle pressioni e delle temperature, ma ogni singolo tema potrebbe essere esplorato ancora più a fondo. Se volete continuare a scoprire segreti sulla vostra bevanda preferita, vi invitiamo a leggere altri articoli del nostro blog che spaziano dalla chimica alla storia della birra, passando per consigli pratici su servizio e abbinamenti. Ad esempio, potrebbe interessarvi capire come la chimica della birra influisca sul gusto e sulla salute, oppure quali sono le differenze tra una birra artigianale e una industriale in termini di processo produttivo e ingredienti.

Infine, per mettere in pratica quanto appreso nulla vieta di cimentarsi nell’homebrewing o semplicemente di degustare con maggiore consapevolezza. Ogni bevuta può diventare un piccolo esperimento: notare come cambia la schiuma con un bicchiere diverso, o come una birra troppo fredda sprigiona meno profumi finché non si scalda leggermente nel bicchiere. Dettagli che un vero appassionato non si lascia sfuggire.

La birra è un connubio unico di arte e scienza, di convivialità e tecnica. Brindare con amici a un buon boccale è un gesto semplice dietro cui si cela una complessa danza di molecole e forze naturali. Saperlo ci fa apprezzare ancora di più quel momento. D’ora in poi, alzeremo il bicchiere non solo dicendo “salute”, ma anche pensando a tutto il sapere scientifico che silenziosamente ha contribuito a quella perfezione liquida.

Buona degustazione e salute a tutti – nella speranza che la prossima pinta vi trovi più curiosi e consapevoli delle piccole meraviglie fisiche che contiene! E se dopo aver letto vi è venuta voglia di assaggiare nuove birre per “studiare” sul campo questi fenomeni, ricordate che potete anche comprare birra artigianale online18 su siti specializzati. Non c’è modo migliore di imparare che con un bicchiere in mano, sperimentando in prima persona ciò di cui abbiamo parlato. Cheers!

Domande frequenti (FAQ)

Q: Quali leggi fisiche sono coinvolte nella produzione della birra?
A: Diverse leggi fisiche intervengono nel processo brassicolo. La termodinamica è fondamentale nel controllo delle temperature di mash, fermentazione e pastorizzazione. Le leggi dei gas (come quella di Henry) spiegano come l’anidride carbonica si dissolve e fuoriesce dalla birra in base a pressione e temperatura. La fluidodinamica governa il flusso dei liquidi durante filtrazione, travasi e spillatura (ad esempio flusso laminare vs turbolento nel versare la birra). Anche i principi di ottica entrano in gioco per il colore (assorbimento e diffusione della luce) e la scelta di bottiglie scure. In sintesi, termodinamica, meccanica dei fluidi, principi di gas solubili e ottica sono tra le discipline coinvolte nell’arte di fare la birra.

Q: Perché le bottiglie di birra sono spesso di vetro scuro (marrone o verde)?
A: Il vetro scuro serve a proteggere la birra dalla luce. I raggi UV e la luce blu innescano reazioni chimiche nei composti del luppolo, producendo sostanze solforate dal cattivo odore (il cosiddetto “gusto di luce” o odore di skunk). Il vetro marrone blocca la maggior parte dei raggi UV, preservando la birra da queste alterazioni. Quello verde offre meno protezione ma è stato usato storicamente anche per motivi di marketing. Le bottiglie trasparenti invece lasciano passare tutta la luce, perciò le birre in vetro chiaro o contengono luppoli modificati che non si degradano con la luce, oppure rischiano di skunkare se esposte al sole. In pratica, le bottiglie scure sono come occhiali da sole per la birra, ne allungano la vita e mantengono intatto l’aroma.

Q: Come si misura la gradazione alcolica di una birra?
A: I birrai calcolano il grado alcolico principalmente misurando la densità prima e dopo la fermentazione. Si determina la densità originale (OG) del mosto prima di aggiungere il lievito e la densità finale (FG) a fermentazione conclusa, tipicamente con un densimetro galleggiante. Dalla differenza tra OG e FG si stima la quantità di zucchero trasformata in alcol e CO₂. Esistono formule empiriche: ad esempio, (OG – FG) * 131 dà un’approssimazione dell’ABV (% di alcol in volume). In laboratorio si può misurare l’alcol distillando la birra e determinando la densità del distillato alcolico, ma in birrificio artigianale non è necessario. Strumenti come il densimetro o il rifrattometro (con opportune correzioni) sono sufficienti per valutare l’alcol prodotto con buona accuratezza.

Q: Da cosa è causata la schiuma della birra e perché è importante?
A: La schiuma della birra è causata dalla fuoriuscita dell’anidride carbonica disciolta quando la birra viene stappata o spillata. La CO₂ in eccesso forma bollicine grazie a imperfezioni nel bicchiere (nucleazione) e sale in superficie, intrappolata in un reticolo di liquido. La presenza di proteine del malto e composti del luppolo stabilizza le bolle, creando la crema di schiuma. La schiuma è importante perché protegge la birra dall’ossigeno dell’aria, preservandone freschezza e aromi; rilascia gradualmente le molecole odorose amplificando il profilo aromatico; migliora la sensazione al palato, rendendo la birra più cremosa e attenuando l’amaro. Inoltre, una bella schiuma fa parte della tradizione e dell’estetica di molte birre, segno di buona spillatura e di birra in forma.

Q: Quali strumenti usa un birraio per controllare i parametri fisici durante la produzione?
A: Il birraio si avvale di diversi strumenti scientifici. Un termometro è indispensabile per monitorare temperature di ammostamento, fermentazione e maturazione. Il densimetro (o rifrattometro) serve a misurare la densità del mosto e della birra, utile per seguire l’andamento della fermentazione e calcolare l’alcol. Un pHmetro o cartine tornasole misurano l’acidità del mash e della birra. I manometri indicano la pressione nei fermentatori o nei fusti durante la carbonazione. altri strumenti includono timer e termostati per il controllo preciso dei tempi e delle temperature, oltre a eventualmente attrezzature di laboratorio come lo spettrofotometro per misurare colore (EBC) o amaro (IBU) nei birrifici più attrezzati. In sostanza, il birraio combina attrezzature classiche (termometri, densimetri) con strumenti moderni per garantire che ogni fase del processo rispetti i parametri desiderati.

5 commenti

  1. Articolo davvero interessante! Non avevo mai pensato a quanta fisica ci fosse dietro una birra. La parte sulla schiuma mi ha colpito, ora guarderò il mio bicchiere con occhi diversi! 😄

  2. Grazie per questa spiegazione così dettagliata! Sono una homebrewer alle prime armi e non avevo idea di come la fluidodinamica influisse sul lautering. Ora capisco perché a volte il mio mosto esce torbido. Continuate così!

  3. Ottimo articolo, ma credo che la parte sulla carbonazione con azoto meriterebbe un approfondimento. Le stout con azoto sono le mie preferite, quella cremosità è unica! Avete in programma un post dedicato?

  4. Interessante, ma un po’ troppo tecnico per me che sono solo un’appassionata di birra e non una scienziata! 😅 Magari un prossimo articolo con meno tecnicismi e più consigli pratici per scegliere una buona birra? Comunque bravi, si vede che ci mettete passione.

  5. Gran bel pezzo! Mi ha fatto venire voglia di rispolverare il mio kit da homebrewing e controllare meglio la temperatura durante il mash. Una domanda: quanto influisce davvero la pressione atmosferica in alta quota sulla carbonazione? Vivo in montagna e vorrei capire se devo regolare qualcosa.

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