Andamento Storico del Mercato della Birra in Italia: Evoluzione, Dati e Tendenze

L’industria birraria italiana ha attraversato oltre un secolo di cambiamenti, trasformandosi da nicchia curiosa a settore in crescita costante. In questo approfondimento esamineremo l’andamento storico del mercato della birra in Italia, tracciando l’evoluzione dalla nascita delle prime birrerie nazionali nell’Ottocento fino ai record di produzione e consumo registrati negli ultimi anni. Analizzeremo i dati storici su produzione, consumi pro capite, import-export e il recente boom della birra artigianale, senza dimenticare come sono cambiate le preferenze dei consumatori italiani.

In questo post

Le origini del mercato birrario italiano: dal XIX secolo agli inizi del ‘900

L’Italia ha una lunghissima tradizione vinicola, mentre la birra – popolare nel Nord Europa – per secoli è rimasta una bevanda di nicchia nel Bel Paese. Fino all’Ottocento la produzione di birra era artigianale e limitata: veniva prodotta in piccole quantità per pochi estimatori, spesso nei monasteri o da imprenditori di origine straniera. La birra era considerata una curiosità “barbara” importata dagli invasori del nord, tanto che la maggior parte del consumo avveniva tramite importazioni dall’Austria e da altri Paesi mitteleuropei. La svolta arrivò a metà Ottocento, quando iniziarono a sorgere le prime vere fabbriche di birra in Italia.

Furono soprattutto imprenditori di origine austriaca e tedesca a intravedere opportunità commerciali nella penisola. Nomi come Wührer (a Brescia), Dreher (a Trieste) o Caracciolo e Paskowski (a Firenze) fondarono birrerie sul modello mitteleuropeo. Accanto a loro emersero presto anche intraprendenti produttori italiani – spesso fabbricanti di ghiaccio, che vedevano nella birra un business complementare alla loro attività estiva. In pochi decenni si assistette a un fiorire di birrifici: nel 1890 se ne contavano circa 140 attivi in Italia, segno di un mercato birrario nascente ma dinamico.

Questo primo boom produttivo si accompagnò a un aumento graduale dei consumi, seppure su valori ancora modestissimi rispetto ad altri paesi. Già nel 1910 la produzione nazionale quadruplicò rispetto a fine Ottocento, raggiungendo circa 600.000 ettolitri annui. Anche le importazioni crebbero (circa 85.000 hl nel 1910, pari al 13% del consumo nazionale), a indicare che la domanda di birra stava aumentando. Tuttavia, il consumo pro capite all’epoca rimaneva inferiore a 5 litri all’anno, un dato minimo dovuto alla perdurante prevailsenza del vino nella dieta italiana e alla percezione della birra come bevanda stagionale. Fino agli anni ‘50, infatti, gli italiani bevevano birra quasi esclusivamente durante la stagione calda, considerandola alla stregua di una bibita rinfrescante da consumare al bar. Nei mesi invernali le fabbriche spesso sospendevano la produzione, limitandosi alla manutenzione degli impianti.

La Prima Guerra Mondiale interruppe bruscamente questa prima fase di crescita. Durante il conflitto (1914-1918) la produzione di birra in Italia crollò: la scarsità di materie prime (malto e luppolo erano in gran parte importati) e le priorità belliche portarono alla chiusura di molti impianti. Paradossalmente, al termine della guerra l’Italia si ritrovò con nuovi territori a tradizione birraria (Trento e Trieste, annesse nel 1918), ereditando birrifici storici come Dreher a Trieste e Forst a Merano. Negli anni Venti si aprì così un periodo d’oro per la birra italiana: l’industria tornò a crescere e marchi destinati a diventare famosi consolidarono la loro presenza. Birrerie come Peroni (fondata a Vigevano nel 1846 e poi trasferita a Roma), Moretti (Udine, 1859), Menabrea (Biella, 1846) e altre realtà regionali iniziarono a espandersi. La birra entrava lentamente nelle abitudini degli italiani, pur restando un consumo minoritario rispetto al vino.

Il mercato della birra nel Novecento: boom, crisi e consolidamento

Boom economico

Nel secondo dopoguerra l’Italia visse un periodo di profondo cambiamento economico e sociale, e la birra ne fu indirettamente protagonista. Con il boom economico degli anni ’50 e ’60, migliorò il tenore di vita e cambiarono gli stili alimentari: la birra, da bevanda estiva occasionale, iniziò a trovare posto sulle tavole tutto l’anno. Tra il 1960 e il 1975 il consumo birrario conobbe una crescita esplosiva: la produzione annua passò da circa 2 milioni di hl a oltre 8 milioni di hl. Il consumo pro capite balzò intorno ai 15-16 litri annui a metà anni ’70 – un livello quadruplo rispetto a soli vent’anni prima. Gli italiani avevano “scoperto” la birra e imparato ad apprezzarla nel suo giusto valore, abbinandola a pasti informali come la pizza o consumandola in compagnia. Proprio in questi anni si consolidò l’abbinamento pizza & birra, tuttora amatissimo: le pizzerie che spuntavano in tutta Italia preferivano servire birra chiara alla spina, contribuendo a far entrare la birra nell’immaginario collettivo come la bevanda da convivialità informale.

Sull’onda di questa popolarità crescente, i produttori erano euforici. Si investiva in capacità produttiva e marketing: celebri campagne pubblicitarie degli anni ’60 hanno lasciato il segno (basti ricordare slogan storici come “Chiamami Peroni, sarò la tua birra”). Nel 1963 la Peroni lanciò la Nastro Azzurro, marchio premium destinato a divenire una delle birre italiane più famose al mondo. I grandi birrifici nazionali facevano previsioni ottimistiche: c’era chi stimava un consumo pro capite di oltre 40 litri entro gli anni ’90, allineando finalmente l’Italia alle medie europee. È in questo periodo che la birra inizia ad uscire dalla stagionalità: si consuma ormai tutto l’anno e non più solo d’estate. La birra chiara tipo lager/pils domina il mercato (è la “bionda” per antonomasia), mentre le varianti scure o speciali restano marginali – riflesso di gusti conservatori orientati a bevande leggere e poco alcoliche. (Per approfondire le differenze tra birra chiara e scura, e come queste siano percepite dai consumatori, si veda Differenza tra birra scura e chiara: una guida completa.)

Crisi degli anni ’70

Tuttavia, la crescita non fu priva di ostacoli. Alla metà degli anni ’70, precisamente nel 1975, intervenne una brusca frenata: la congiuntura economica negativa (crisi petrolifera) colpì anche il settore birrario. Quell’anno, paradossalmente, le importazioni di birra aumentarono di quasi il 40% – segno che una parte della domanda veniva soddisfatta dall’estero, magari grazie a prezzi più competitivi. Il colpo più duro fu però l’aumento del 50% dell’imposta di fabbricazione deciso dal governo nel 1975: le tasse sulla birra salirono improvvisamente, costringendo i produttori ad alzare i prezzi al consumo. In un clima di recessione economica, la birra divenne relativamente più costosa e molti consumatori ne rallentarono gli acquisti. Il risultato fu una contrazione dei consumi alla fine degli anni ’70. Ci vollero circa cinque anni perché il mercato assorbisse il colpo: solo nei primi anni ’80 il consumo pro capite nazionale riuscì a risalire di nuovo intorno ai 16 litri, recuperando il terreno perso.

Dagli anni ’80 in poi i consumi ricominciarono a crescere costantemente di anno in anno, sebbene a un tasso più moderato rispetto al boom precedente. Negli anni ’90 la birra in Italia raggiunse una sorta di maturità: il consumo pro capite si avvicinò ai 20-25 litri annui sul finire del decennio e il nostro Paese iniziò a colmare (parzialmente) il gap con altri paesi europei. Tuttavia, in quel periodo restavamo ancora in fondo alla classifica UE per consumo di birra: a metà anni ’90 l’Italia era ultima o penultima, con valori ben lontani dai 100+ litri pro capite di nazioni come Germania o Repubblica Ceca.

Parallelamente, gli assetti industriali del mercato birrario italiano si modificarono profondamente negli anni ’80-’90. Dopo decenni di crescita interna, molti marchi storici italiani passarono sotto il controllo di colossi multinazionali. Ad esempio, la olandese Heineken entrò vigorosamente nel nostro mercato: già nel 1974 aveva acquisito la Birra Pedavena, e nel 1986 comprò l’azienda sarda Ichnusa. Nel 1996 Heineken realizzò un colpo importante acquisendo Birra Moretti, storica birreria di Udine, e continuò a inglobare diversi produttori locali negli anni seguenti. Peroni, dal canto suo, dopo aver assorbito piccoli concorrenti (come Itala Pilsen di Padova e Birra Raffo di Taranto) fu ceduta nel 2003 al colosso anglo-sudafricano SABMiller, per poi passare nel 2016 al gruppo giapponese Asahi. Alla fine degli anni ’90 il mercato della birra in Italia si presentava quindi fortemente concentrato: pochi grandi gruppi controllavano la stragrande maggioranza della produzione nazionale. In pratica due big – Heineken Italia e Birra Peroni – si spartivano circa 2/3 delle vendite, completati da alcuni marchi nazionali indipendenti (Forst, Menabrea) e da birre d’importazione molto popolari (ad esempio Corona, Budweiser, Ceres, ecc., distribuite da importatori specializzati). La competizione avveniva soprattutto sul prezzo e sulla distribuzione: le birre industriali mantenevano costi contenuti grazie alle economie di scala, affermandosi come bevande accessibili (oggi esistono anche guide dedicate alle birre più economiche sul mercato Quali Sono Le Birre Più Economiche Sul Mercato?). A fine anni ’90, insomma, il mercato birrario italiano era maturo ma statico: consumi in lento aumento, offerta dominata da lager chiare industriali, poca diversificazione nei prodotti. Nessuno poteva immaginare che una piccola rivoluzione brassicola era alle porte.

L’era della birra artigianale in Italia: nascita e boom dei microbirrifici

Intorno alla metà degli anni ’90 avviene qualcosa di impensabile fino a pochi anni prima: nascono i primi microbirrifici artigianali italiani. Spinti dall’onda della rivoluzione craft partita negli Stati Uniti e nel Nord Europa, alcuni pionieri decidono di produrre birra di qualità al di fuori dei circuiti industriali. Il 1996 è comunemente indicato come l’anno zero della birra artigianale in Italia: in quel periodo aprono birrifici destinati a diventare iconici, come il Birrificio Italiano di Lurago Marinone (CO) e il birrificio Baladin di Piozzo (CN). In realtà, qualche esperimento era già iniziato poco prima (il brewpub St.Josef a Sant’Ambrogio di Sorrento risale addirittura al 1985), ma è dalla seconda metà degli anni ’90 che il fenomeno decolla davvero. All’inizio si tratta di pochissime realtà – si contavano meno di 10 microbirrifici attivi nel 1997 – ma il seme era gettato. La birra artigianale in Italia praticamente non esisteva fino a quel momento; da allora in poi conoscerà una vera esplosione.

Negli anni 2000 assistiamo a una crescita vertiginosa del numero di birrifici artigianali. Per dare un’idea: nel 2008 i microbirrifici censiti erano appena 113, ma nel 2017 erano già saliti a 718. Ciò significa un aumento di oltre il 500% in meno di un decennio. L’espansione è proseguita nel decennio successivo: secondo i dati di Unionbirrai (associazione dei birrifici indipendenti), si è passati da 649 birrifici nel 2015 a 1.326 birrifici nel 2022, con un incremento del +104% in sette anni. Questa crescita formidabile riguarda quasi esclusivamente il segmento artigianale, mentre il numero di birrifici industriali è rimasto pressoché stabile (una quindicina di grandi siti produttivi). In altre parole, l’aumento del numero di produttori è stato trainato dalle piccole realtà indipendenti, diffuse ormai in tutte le regioni d’Italia. Oggi anche il più piccolo paese può vantare un microbirrificio locale, segno di un fermento imprenditoriale notevole nel settore craft.

Per visualizzare l’evoluzione, ecco un riepilogo dell’aumento dei birrifici artigianali italiani negli ultimi anni:

Anno Birrifici artigianali attivi (numero)
2008 ~113
2015 649
2017 718
2022 1.326

Naturalmente, l’esplosione del numero di birrifici non significa automaticamente volumi enormi – anzi, la quota di mercato della birra artigianale, pur in crescita, resta piuttosto piccola. Si è passati da una situazione in cui il craft era praticamente irrilevante (all’inizio degli anni 2000 rappresentava attorno allo 0,x% del mercato) a un segmento che oggi copre circa 3% del consumo nazionale. In termini di produzione, i volumi artigianali hanno raggiunto il loro picco pre-pandemia intorno a 470.000 ettolitri annui (dato 2019-2020), per poi calare leggermente a 450.000 hl nel 2023. Stiamo parlando quindi di quantità ancora modeste rispetto ai 18-20 milioni di hl prodotti dall’industria, ma comunque significative se paragonate al nulla di trent’anni fa. Inoltre, il segmento craft ha mostrato una grande resilienza: dopo le difficoltà del 2020-21 dovute alla pandemia (molti microbirrifici, legati al consumo nei pub, hanno sofferto cali drastici e alcuni hanno chiuso), nel 2022 la produzione artigianale è rimbalzata tornando ai livelli pre-Covid. In termini percentuali, la birra artigianale continua a crescere molto più rapidamente della birra industriale, anche se partendo da volumi piccoli. Negli ultimi anni si osserva un lieve rallentamento del trend: la quota artigianale pare essersi stabilizzata intorno al 2-3%. Per fare un ulteriore salto di scala, il comparto craft dovrà probabilmente superare alcune sfide strutturali ancora aperte – in primis la distribuzione (oggi frammentata), il prezzo elevato e la limitata capacità produttiva media dei microbirrifici. Su questi aspetti, un’analisi dettagliata delle differenze tra birra artigianale vs birra industriale è disponibile nel relativo approfondimento (Birra artigianale vs birra industriale).

Al di là dei numeri, la rivoluzione artigianale ha portato in Italia una nuova cultura della birra. Negli anni 2000 i consumatori italiani hanno scoperto stili prima introvabili: IPA, Stout, Weiss, Porter, Saison, solo per citarne alcuni, hanno affiancato e in parte rimpiazzato la classica lager industriale. Oggi la IPA (India Pale Ale) è diventata la birra simbolo del movimento craft ed è lo stile artigianale più venduto, rappresentando circa il 35% delle vendite craft nel 2024. Varianti come la New England IPA stanno riscuotendo grande successo anche qui (+30% di vendite dal 2020) grazie al loro gusto più morbido e aromatico. (Per chi volesse saperne di più su questo stile, ecco una guida completa sulla birra IPA (India Pale Ale).) Accanto alle IPA, anche le birre Stout – un tempo praticamente assenti dal mercato italiano – hanno conquistato una nicchia di appassionati, complici versioni creative come le Pastry Stout aromatizzate con cacao, caffè o altri ingredienti golosi. Oggi persino nei pub di provincia è possibile trovare una stout alla spina accanto alle bionde tradizionali (per i curiosi: Birra stout: storia e curiosità sulla scura).

Un capitolo a parte merita l’innovazione italiana in campo birrario: i nostri birrai artigianali hanno saputo sperimentare, creando stili originali come le Italian Grape Ale (IGA) – birre brassate con aggiunta di mosto d’uva, sintesi perfetta tra cultura birraria e vinicola italiana. Questo stile ibrido ha ottenuto riconoscimento internazionale ed è oggi uno dei fiori all’occhiello del Made in Italy birrario, tanto da essere usato come arma per conquistare mercati esteri (ne riparleremo più avanti a proposito dell’export). La creatività nostrana si vede anche nell’uso di ingredienti locali: molti microbirrifici inseriscono nelle ricette castagne, spezie mediterranee, agrumi, miele del territorio, reinterpretando ricette classiche in chiave italiana. Il risultato complessivo di questa rivoluzione è che la birra in Italia è passata da prodotto standardizzato a prodotto culturale. Sono nati festival birrari, concorsi e guide dedicate; si è diffuso l’homebrewing; i pub specializzati e le tap room dei birrifici artigianali sono diventati luoghi di ritrovo per migliaia di appassionati. Il consumatore medio di birra artigianale oggi è descritto come un 40enne istruito, di medio-alto livello socio-economico, disposto a spendere di più per un prodotto percepito come migliore e autentico. La birra, insomma, non è più solo “bionda da pasto” ma assume dignità gastronomica: la si degusta come il vino, abbinandola a formaggi o dessert, e nascono corsi per sommelier della birra (i cosiddetti beer sommelier o cicerone). Tutto ciò era impensabile fino a pochi decenni fa ed evidenzia quanto il mercato si sia evoluto non solo nei numeri ma anche nella mentalità.

Va anche segnalato che l’avvento del craft ha aperto nuovi canali di vendita prima inesistenti. Negli ultimi anni 2010, grazie anche all’e-commerce, è possibile acquistare birre artigianali online con facilità. Molti birrifici vendono direttamente sul proprio sito o tramite piattaforme specializzate, raggiungendo così consumatori in tutta Italia. Chi vuole provare etichette particolari può ordinarle su internet e farsi recapitare a casa birre di piccoli produttori lontani. Esistono guide e portali dedicati a dove comprare birra artigianale online (vedi consigli e servizi), segno di un mercato che si è digitalizzato come molti altri settori. Questo aspetto ha acquisito importanza particolare durante la pandemia Covid-19, quando la chiusura di pub e locali ha spinto birrifici e consumatori verso le consegne a domicilio e gli ordini online.

In sintesi, tra il 2000 e il 2020 la birra in Italia ha vissuto una seconda giovinezza. Al termine di questo periodo, il panorama è molto diverso rispetto a fine anni ’90: accanto ai pochi grandi produttori esistono centinaia di micro-imprese brassicole; la scelta per il consumatore spazia da lager industriali economiche a IPA luppolate, weiss tedesche, trappiste belghe ecc. (laddove una volta c’erano solo “bionde” e poche “doppio malto”). La competizione nel mercato si gioca ora anche sulla qualità e varietà, non più solo sul prezzo. Ciò ha costretto anche i colossi a reagire: Heineken, Peroni e gli altri hanno introdotto linee speciali o birre crafty per intercettare i nuovi trend. Un esempio emblematico è la collaborazione tra Baladin (birrificio artigianale) e Peroni per creare la 6.5 Special, una lager non filtrata luppolata in dry-hopping, che in pochi mesi ha venduto oltre 1,2 milioni di bottiglie – segno che l’ibridazione tra industria e artigianato può funzionare. Persino Heineken ha lanciato iniziative per rendere la propria offerta più personalizzata (progetto “Brew Your Way” nel 2022, in cui i clienti potevano creare piccoli blend personalizzati in birrificio), cercando di avvicinarsi alla flessibilità creativa dei microbirrifici. In pochi anni, insomma, i due mondi un tempo separati – grandi birre da supermercato vs piccole birre di nicchia – hanno iniziato a contaminarsi a vicenda.

Il mercato birrario italiano oggi (2010–2025): dati, consumi e trend

Arriviamo così al panorama attuale, con un mercato della birra italiano che negli ultimi anni ha toccato i suoi massimi storici in termini di consumi e produzione. Gli anni 2018-2019 sono stati particolarmente positivi, segnando record che poi sono stati superati di nuovo dopo la parentesi del 2020. Secondo i dati ufficiali di AssoBirra, il 2022 ha visto i consumi interni di birra salire a 22,3 milioni di ettolitri, il livello più alto di sempre e superiore di oltre 1 milione di hl al precedente picco del 2019. Nello stesso anno la produzione nazionale ha raggiunto 18,4 milioni di ettolitri, anch’essa un record storico che ha permesso di soddisfare buona parte della domanda interna. Per dare un’idea dell’avanzata, basti pensare che dieci anni prima (2013) i consumi erano intorno a 17,5 milioni di hl: in un decennio la crescita è stata di circa +20%. Anche il consumo medio pro capite ha toccato nuove vette, sfiorando i 37-38 litri annui per persona. Questo valore – circa 38 litri nel 2022 – segna un record per l’Italia, che finalmente si avvicina alle quantità bevute in paesi come la Spagna o la Francia. Certo, rimaniamo ancora distanti dalle superpotenze della birra: la Repubblica Ceca viaggia oltre i 140 litri pro capite e la Germania oltre 100, ma il gap si sta riducendo. Negli anni ’90 eravamo fanalino di coda in Europa; oggi non più.

Come si nota, negli ultimi 70 anni il consumo medio è aumentato di oltre dieci volte. Questo riflette un cambiamento culturale profondo: la birra è passata da bevanda marginale a parte integrante delle abitudini alimentari italiane. Oggi quasi la totalità degli italiani la consuma almeno occasionalmente durante l’anno (secondo ISTAT circa il 47-48% della popolazione beve birra). In molte zone d’Italia il consumo di birra ha persino superato quello del vino in termini di frequenza, specie tra i più giovani. Ad esempio, tra gli under 35 la media di consumo è di circa 68 litri annui (quasi il doppio della media nazionale), segno che le nuove generazioni preferiscono la birra come bevanda alcolica di riferimento. Da paese di “vino e aperitivo”, l’Italia si sta trasformando anche in un paese di birra, con nuovi rituali sociali legati ad essa.

Un altro dato significativo è il peso economico della filiera birraria. Oggi la birra in Italia genera un valore economico stimato in circa 9,4 miliardi di euro, pari allo 0,5% del PIL, dando lavoro – direttamente e nell’indotto – a quasi 120.000 occupati. Questi numeri sottolineano come il settore brassicolo sia ormai un comparto importante dell’agroalimentare nazionale. Anche il gettito fiscale non è trascurabile: oltre 700 milioni di euro l’anno arrivano allo Stato dalle accise sulla birra. Un tempo la birra era un prodotto marginale anche nei conti economici, mentre oggi rappresenta un giro d’affari consistente e un contributo all’occupazione (dagli agricoltori che coltivano orzo e luppolo, ai birrai, ai distributori, fino ai pub e ristoranti). Secondo l’ultimo Annual Report di AssoBirra, nel 2023 il mercato brassicolo italiano ha raggiunto un valore di 6,4 miliardi di euro in termini di vendite, con una produzione totale attorno a 20,3 milioni di hl. La filiera ha dunque recuperato in pieno i livelli pre-pandemia e continua a espandersi.

Dal punto di vista della struttura del mercato, oggi possiamo distinguere due macro-segmenti: da un lato le birre industriali prodotte dai grandi gruppi, dall’altro le birre artigianali dei microbirrifici. Le birre industriali rappresentano tuttora la fetta dominante in volume: circa l’82% della produzione nazionale e una quota analoga dei consumi. I tre marchi più venduti rimangono i “soliti noti”: Peroni (Nastro Azzurro), Heineken Italia e Birra Moretti occupano i vertici della classifica per volumi. Si stima che Peroni da sola detenga circa il 28% di quota di mercato, seguita da Heineken (~22%) e Moretti (~15%). Questi colossi devono il loro primato a una distribuzione capillare (sono presenti in ogni supermercato e bar), prezzi mediamente più bassi e campagne di marketing massicce e mirate. Le birre artigianali e di microbirrificio, dal canto loro, costituiscono circa il 18% della produzione (in volume) ma generano un valore proporzionalmente più alto sul mercato, grazie ai prezzi superiori e al posizionamento premium. In termini di fatturato, il comparto artigianale vale oltre 1,2 miliardi di euro, circa il 15% del mercato totale, indice del fatto che pur con volumi minori il craft ha maggiore valore unitario. Il consumatore italiano medio ormai conosce la differenza tra un prodotto industriale e uno artigianale, e una buona parte (circa il 60% dei bevitori) dichiara di preferire birra prodotta in Italia, segno di apprezzamento anche patriottico verso i prodotti locali.

Un fenomeno interessante degli ultimi anni riguarda i canali di consumo e formato: nonostante circa il 73% degli italiani dichiari di preferire la birra alla spina quando può (il che conferma la birra come bevanda sociale da pub e pizzeria), ben il 62% degli acquisti avviene ancora in formati da asporto (bottiglie o lattine). Questo “paradosso della bottiglia” significa che molti bevitori, pur amando la spina, consumano la maggior parte della birra in casa o comunque comprata al supermercato. La grande distribuzione organizzata (GDO) infatti copre circa il 60% delle vendite di birra in Italia, contro un 40% circa del canale HoReCa (bar, ristoranti, pub). È un dato in linea con le abitudini mediterranee: da noi si consuma birra anche a casa durante i pasti o le serate in famiglia, non solo al pub. In compenso, la qualità della birra venduta nella GDO è in aumento: accanto alle lager economiche da 1 euro a bottiglia (grazie alle quali le birre da supermercato rimangono accessibili – vedi Migliore birra da supermercato: guida), compaiono scaffali dedicati a birre speciali e artigianali, indice di una domanda più esigente. Anche il formato in lattina sta vivendo una nuova vita: molti microbirrifici dal 2020 hanno iniziato a confezionare le loro birre in lattine decorate, sposando motivi di praticità e sostenibilità. Oggi una buona percentuale di birra artigianale è venduta in lattina anziché in bottiglia, un cambiamento notevole rispetto al passato (per saperne di più su pro e contro dei due formati, si può leggere Birra in lattina o in bottiglia: tutto quello che devi sapere).

Un altro aspetto interessante del mercato odierno è la geografia dei consumi. Storicamente, le regioni del Nord Italia – più vicine culturalmente all’Europa mitteleuropea – hanno consumi di birra più elevati rispetto al Sud, dove prevale la tradizione vinicola. Questo divario persiste, ma negli ultimi anni il Sud sta recuperando terreno. Attualmente circa il 45% del consumo nazionale di birra si concentra nelle regioni del Nord, con la Lombardia in testa (circa 18% del totale nazionale). Tuttavia, le regioni meridionali mostrano i tassi di crescita più alti: in Sicilia, Campania, Puglia le vendite di birra crescono anno su anno a ritmi doppi rispetto alla media italiana (anche +10/+15% annuo in alcune aree). Questo grazie anche al proliferare di birrifici locali nel Sud, che reinterpretano stili classici con ingredienti territoriali e attirano la curiosità dei consumatori. Qual è la regione italiana che beve più birra? In termini di consumo pro capite, sorprendentemente domina il Trentino-Alto Adige con oltre 80 litri annui per persona – un dato influenzato dalla forte cultura birraria sudtirolese e dal turismo (molte birrerie e festival attirano visitatori). Seguono regioni insospettabili come la Lombardia (circa 68 litri pro capite) e il Veneto (~63 litri). Il fatto che regioni notoriamente legate al vino come Toscana o Piemonte stiano vedendo crescere i consumi di birra dimostra il cambiamento in atto. Per chi volesse approfondire i dettagli regionali, abbiamo dedicato un articolo alla regione italiana che beve più birra (dati e trend regionali), con classifiche e curiosità sulle abitudini locali.

In conclusione di questa panoramica sullo stato attuale, possiamo dire che il mercato birrario italiano nel 2025 appare in ottima salute: consumi elevati, produzione in crescita, una varietà di operatori dal grande birrificio al piccolo brewpub, e un pubblico sempre più competente e appassionato. Ma quali direzioni prenderà in futuro questo mercato? Nel prossimo paragrafo daremo uno sguardo alle tendenze emergenti e alle prospettive future.

Tendenze future e prospettive del mercato della birra in Italia

Guardando al futuro, gli esperti sono concordi nel ritenere che ci sia ancora spazio di crescita per la birra in Italia. Sebbene i consumi abbiano raggiunto livelli record, restiamo sotto la media europea – un margine che potrebbe colmarsi nei prossimi 10-15 anni man mano che la cultura della birra si radica ulteriormente. Le proiezioni economiche indicano un mercato in espansione: secondo un recente studio Nomisma, il settore birrario italiano raggiungerà circa 7,1 miliardi di euro di fatturato entro il 2025, consolidando la crescita vista finora. Questa crescita non sarà solo quantitativa, ma accompagnata da tendenze qualitative ben precise:

  • Iper-localismo e prodotti “a km 0” – I consumatori, soprattutto i più giovani, mostrano una crescente preferenza per le birre locali. Si stima che il 68% dei consumatori sotto i 40 anni preferisca birre prodotte entro 50 km dal punto di acquisto. Questo spingerà i microbirrifici a enfatizzare il legame col territorio e persino le multinazionali a “localizzare” alcuni prodotti. Già vediamo birre industriali regionali rilanciate (es. Birra Messina con ingredienti siciliani) e birrifici artigianali che coltivano materie prime autoctone – ad esempio luppoli italiani come il Nostrano di Trento o varietà adattate ai climi locali. Il trend del farm brewery (birrificio agricolo) potrebbe rafforzarsi, con birre a km zero sempre più apprezzate.

  • Innovazione tecnologica nella produzione – L’industria 4.0 sta arrivando anche nelle sale cottura. Sensori IoT e algoritmi di intelligenza artificiale iniziano a essere impiegati per controllare ogni fase del processo, migliorando efficienza e costanza qualitativa. Alcuni birrifici pionieri già utilizzano sistemi di controllo automatizzato della fermentazione e della temperatura, riducendo sprechi e consumi energetici. Il Birrificio Italiano riferisce di aver abbattuto del 18% gli scarti produttivi grazie a sensori intelligenti e analisi dati in tempo reale. In futuro vedremo sempre più integrazione tra arte brassicola e tecnologia, anche nei piccoli impianti (mash tun controllati da app, intelligenza artificiale per creare ricette ottimali, ecc.). L’innovazione tecnologica contribuirà anche alla sostenibilità ambientale del settore. In quest’ottica, diventerà cruciale monitorare e ridurre l’impronta ecologica della filiera birraria – dall’uso di acqua ed energia al riciclo di bottiglie e lattine. (A tal proposito, si segnala l’articolo Impatto ecologico della birra: come il mercato brassicolo influisce sull’ambiente.)

  • Nuovi gusti e segmenti di mercato – Le preferenze dei consumatori continuano a evolvere. Da un lato c’è interesse per birre sempre più particolari (ad esempio le già citate Italian Grape Ale, o birre affinate in botte, sour ale acide di ispirazione belga, ecc.), dall’altro cresce una domanda opposta verso birre più leggere e salutari. Negli ultimi tempi si registra il boom delle birre analcoliche o low-alcohol (NABLAB), spinte anche da considerazioni salutistiche e normative (il nuovo codice della strada incentiva il consumo di bevande zero alcol). I grandi birrifici stanno lanciando versioni “0.0%” delle loro etichette principali e anche alcuni artigianali sperimentano su questo fronte. Un altro segmento in crescita è quello delle birre senza glutine per celiaci o intolleranti: molte birre artigianali vengono deglutinate con enzimi appositi, così da poter riportare in etichetta la dicitura gluten free. Il nostro articolo dedicato (Birra senza glutine: cos’è, come si fa e per chi è indicata) spiega come questo segmento stia diventando rilevante per intercettare una fetta di consumatori sempre più attenti alla salute. Anche le birre a basso contenuto calorico o arricchite con ingredienti funzionali (es. aggiunta di sali minerali per sportivi) potrebbero fare la loro comparsa, dato che la tendenza wellness investe anche il settore beverage.

  • Internazionalizzazione e export – Un punto dolente storico per la birra italiana è sempre stato l’export relativamente ridotto. Ma le cose stanno cambiando: negli ultimi anni le esportazioni di birra italiana sono cresciute a doppia cifra, attorno al +20% annuo. Il 2021 aveva visto un record di 3,9 milioni di hl esportati, leggermente ridotto a 3,8 nel 2022 ma comunque altissimo rispetto al passato. Oggi circa un quinto della nostra produzione viene esportato. Il mercato estero più ricettivo è il Regno Unito, che da solo assorbe quasi la metà dell’export italiano – merito soprattutto del successo di Peroni Nastro Azzurro nelle pub britannici e di alcune craft italiane presenti a Londra. Seguono gli Stati Uniti, dove sia i marchi industriali (Moretti, Peroni) sia alcune birre artigianali di punta trovano spazio nei ristoranti e negozi gourmet, e poi Francia, Paesi Bassi e persino l’Albania tra i maggiori importatori. In prospettiva futura, si punta molto anche su mercati emergenti in Asia: il Giappone ad esempio sta mostrando interesse per le birre italiane, specie quelle artigianali dal taglio innovativo. L’idea di abbinare la birra alla cucina italiana all’estero è un traino formidabile. Il made in Italy birrario si promuove raccontando territorio e tradizione: stili come l’Italian Grape Ale, che uniscono la birra alla nostra eredità vinicola, incuriosiscono i mercati stranieri e differenziano la birra italiana da tutte le altre. Se questa strategia continuerà, l’export potrà diventare una componente ancora più significativa del nostro mercato (già oggi l’Italia è passata da importatore quasi esclusivo a esportatore netto in alcuni mesi dell’anno). Naturalmente rimangono sfide da affrontare, come i costi logistici e la necessità di mantenere standard qualitativi elevati per competere fuori dai confini.

In conclusione, l’andamento storico del mercato della birra in Italia mostra una traiettoria decisamente positiva e in continua evoluzione. Da bevanda marginale relegata a contesti estivi, la birra è diventata un pilastro dell’industria alimentare nazionale e della vita sociale degli italiani. La strada percorsa dal 1850 a oggi è fatta di alti e bassi, di boom e frenate, ma soprattutto di un crescente amore degli italiani per la birra. Oggi possiamo gustare una bionda industriale a buon mercato durante una grigliata, oppure sorseggiare una IPA artigianale ricca di luppolo in un pub di tendenza – entrambe le cose rientrano a pieno titolo nella nostra “cultura birraria” contemporanea. Il mercato attuale è dinamico, con tanti attori diversi, e con un consumatore sempre più consapevole e curioso. Le sfide future non mancano (dalla sostenibilità ambientale alla necessità di innovare costantemente), but there’s optimism: la birra ha saputo reinventarsi e trovare un posto d’onore sulle tavole italiane. Come recita un detto tra gli appassionati, “chi beve birra campa cent’anni”: di certo, il mercato della birra in Italia ha davanti a sé molti altri anni frizzanti e pieni di fermento.

2 commenti

  1. Articolo davvero completo! Non immaginavo che la birra artigianale avesse avuto un impatto così forte in Italia. Interessante il dato sul Trentino-Alto Adige, non pensavo fosse la regione che beve di più!

  2. Ottima analisi, soprattutto la parte sulle tendenze future. Le Italian Grape Ale sono una genialata, spero continuino a spingere sull’export!

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