Acqua del rubinetto va bene per fare la birra? Analisi Scientifica e Guida Pratica

La domanda che ogni birraio si pone: l’acqua del rubinetto è davvero utilizzabile?

Ogni appassionato di birra artigianale, dall’homebrewer principiante al mastro birraio di un microbirrificio, si è trovato almeno una volta a osservare il getto d’acqua che esce dal rubinetto della propria cucina o dello stabilimento, chiedendosi se quel liquido, così comune e quotidiano, possa diventare la base per una birra di qualità. La risposta non è né un semplice sì né un netto no, ma piuttosto un “dipende” che si dipana in un intricato percorso tra chimica, normative locali e arte brassicola. L’acqua non è un semplice solvente inerte; è l’ingrediente quantitativamente più abbondante nella birra, rappresentando spesso oltre il 90% del prodotto finale. Il suo ruolo trascende la semplice idratazione degli altri componenti. L’acqua influenza direttamente l’efficienza dell’ammostamento, agendo come partner enzimatico durante la conversione degli amidi in zuccheri fermentescibili. Definisce il pH del mosto, un parametro cruciale che controlla l’estrazione dei tannini, l’efficienza del luppolo e persino la stabilità microbiologica del prodotto durante le prime fasi. Infine, i minerali disciolti in essa, i cosiddetti sali, plasmano in modo sottile ma decisivo il profilo sensoriale della birra finita, esaltando la dolcezza maltata o accentuando la secchezza amara del luppolo. Utilizzare l’acqua del rubinetto senza una preventiva, approfondita conoscenza delle sue caratteristiche significa, in un certo senso, affidare il destino del proprio prodotto a un elemento incontrollato. La scelta di partire dall’acqua di rete è una scelta economica, pratica e spesso sostenibile, ma deve essere una scelta consapevole. Questo articolo si propone di fornire tutti gli strumenti per trasformare quella scelta in un successo brassicolo, esplorando la complessità dell’acqua potabile, i suoi pregi, i suoi limiti e le tecniche per domarla e adattarla a qualsiasi stile birrario si desideri creare.

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Composizione dell’acqua del rubinetto: cosa c’è dentro al bicchiere?

Prima di decidere se versare l’acqua del rubinetto nel tino di mash, è fondamentale capire esattamente cosa stiamo introducendo nel nostro processo. L’acqua potabile fornita dagli acquedotti italiani ed europei non è acqua distillata. È un cocktail complesso e strettamente regolamentato di minerali, gas disciolti e, spesso, additivi di trattamento. La sua composizione varia in modo drammatico da città a città, da quartiere a quartiere, e persino stagionalmente, riflettendo la fonte di approvvigionamento – sia essa una falda profonda, un lago montano o un fiume – e i trattamenti a cui viene sottoposta per garantirne la sicurezza microbiologica. I principali cationi, ovvero ioni positivi, che ci interessano sono il calcio (Ca²⁺), il magnesio (Mg²⁺), il sodio (Na⁺) e, in misura minore, il potassio (K⁺). Gli anioni, ioni negativi, cruciali sono i bicarbonati (HCO₃⁻), i solfati (SO₄²⁻), i cloruri (Cl⁻) e i nitrati (NO₃⁻). Ognuno di questi ioni svolge un ruolo preciso. Il calcio, ad esempio, è un vero e proprio attore protagonista. Abbassa il pH del mosto, favorendo un ambiente acido ideale per l’azione degli enzimi amilasi durante l’ammostamento. Promuove la coagulazione delle proteine, aiutando la chiarifica. Stabilizza gli alfa-acidi del luppolo, contribuendo a un amaro più pulito e persistente. Una carenza di calcio può portare a mosti con pH troppo alto, con conseguente scarsa efficienza di estrazione e un rischio maggiore di estrazione di tannini astringenti dalle bucce dei malti. Il magnesio ha un ruolo simile ma meno marcato; in eccesso, tuttavia, può conferire un sapore amaro-saponoso sgradevole. Sodio e cloruri, in giusto equilibrio, sono in grado di esaltare la dolcezza e la pienezza maltata di una birra, donando una percezione di rotondità e corpo al palato. Un eccesso di sodio, però, risulta salino e metallico. I solfati, al contrario, accentuano la secchezza e la percezione dell’amaro, tendendo a “asciugare” il finale e a rendere più nitido il carattere del luppolo. Il rapporto tra cloruri e solfati è quindi una leva potentissima per orientare il bilanciamento generale di una birra verso la maltosità o verso l’amarognolo. I bicarbonati, infine, rappresentano il potere tampone dell’acqua, la sua capacità di resistere alle variazioni di pH. In acque molto alcaline (ricche di bicarbonati), sarà difficile abbassare il pH del mash per birre chiare e delicate, mentre queste stesse acque potrebbero essere l’ideale per contrastare l’acidità naturale dei malti scuri e tostati. Oltre ai minerali, l’acqua di rete contiene quasi sempre residui dei composti utilizzati per la disinfezione, principalmente cloro libero o clorammine. Queste sostanze, pur essendo essenziali per la salute pubblica, sono estremamente reattive e possono legarsi ai fenoli del malto e del luppolo, generando composti clorofenolici il cui aroma ricorda in modo inequivocabile il disinfettante, il nastro adesivo o la medicina. Questo difetto, noto come “fenolo clorurato”, è spesso il primo e più evidente segnale che l’acqua di rubinetto non è stata adeguatamente trattata prima dell’uso. Un’analisi approfondita della composizione chimica della birra parte inevitabilmente dalla comprensione di questa matrice liquida complessa. Per un approfondimento su come i diversi componenti interagiscono nel prodotto finito, puoi consultare la nostra guida ai parametri tecnici e analitici della birra.

Cloro e clorammine: i nemici invisibili dell’aroma

Tra tutti gli aspetti da considerare quando si valuta l’acqua del rubinetto per fare la birra, la presenza di disinfettanti residuali merita una discussione a parte, poiché il rischio che pongono non è legato all’efficienza del processo, ma alla qualità sensoriale del prodotto finale in modo diretto e spesso rovinoso. Gli acquedotti utilizzano il cloro (sotto forma di ipoclorito di sodio o di calcio) o le clorammine (composti di cloro e ammoniaca) per garantire che l’acqua rimanga microbiologicamente sicura durante tutto il suo percorso nelle tubature fino al rubinetto di casa. Il cloro è un potente agente ossidante. Quando entra in contatto con i composti organici presenti nel mosto – in particolare con i precursori fenolici derivati dal malto e, in misura maggiore, dal luppolo – dà luogo a reazioni di sostituzione che generano clorofenoli e bromofenoli. La soglia di percezione umana per questi composti è incredibilmente bassa, nell’ordine di pochi microgrammi per litro. L’aroma e il sapore che ne derivano sono universalmente riconosciuti come difetti gravi: ricordano il disinfettante, l’antisettico, il nastro adesivo o, in casi meno intensi, una generica “durezza” medicinale che copre ogni altra nuance aromatica. La buona notizia è che il cloro libero è relativamente facile da rimuovere. Essendo volatile, basta far riposare l’acqua in un recipiente aperto per 12-24 ore perché la maggior parte evapori. Un’ebollizione vigorosa per 15-20 minuti prima dell’uso è un metodo ancora più rapido ed efficace per scacciarlo completamente. Il problema reale sono le clorammine. Questi composti, formati dall’unione di cloro e ammoniaca, sono molto più stabili e non vengono eliminati né dalla semplice aerazione né dalla bollitura. Per scomporle è necessario un agente riducente che rompa il legame chimico. La soluzione più comune e accessibile per l’homebrewer è l’uso di metabisolfito di potassio (o sodio). Una quantità minuscola, generalmente calcolata in pochi milligrammi per litro di acqua (circa 1-2 mg/L), è sufficiente a neutralizzare completamente le clorammine. Il dosaggio deve essere accurato per evitare di introdurre un eccesso di solfiti, che a loro volta potrebbero generare note solforose. Un’alternativa è l’uso di filtri a carboni attivi di buona qualità, in grado di adsorbire sia il cloro che le clorammine attraverso un contatto sufficientemente prolungato. La rimozione di questi disinfettanti è il trattamento minimo e non negoziabile che deve essere applicato a qualsiasi acqua di rubinetto prima del suo impiego in birrificazione. Trascurare questo passaggio significa rischiare di vanificare ore di lavoro e il costo degli ingredienti per un difetto facilmente prevenibile. La gestione di questi composti è parte di una più ampia attenzione alla chimica della birra, una disciplina affascinante che spiega le trasformazioni dietro al gusto finale.

Durezza, alcalinità e pH: il triangolo fondamentale della birrificazione

Per navigare il mondo dell’acqua brassicola, è essenziale padroneggiare tre concetti interconnessi: durezza, alcalinità e pH. Questi parametri, spesso riportati nelle analisi chimiche dell’acqua, formano una sorta di triangolo i cui lati definiscono il comportamento dell’acqua durante il mash e, di conseguenza, il carattere della birra. La durezza totale dell’acqua è una misura della concentrazione di ioni di calcio e magnesio in soluzione. Viene tradizionalmente espressa in gradi francesi (°fH) o in parti per milione (ppm) di carbonato di calcio (CaCO₃). Un’acqua “dolce” (es. quella di Plzeň, celebre per le Pilsner) ha una durezza molto bassa, inferiore a 10 °fH. Un’acqua “dura” (es. quella di Burton-upon-Trent, patria delle Pale Ale inglesi) supera abbondantemente i 20-25 °fH. La durezza è positiva perché, come detto, il calcio è benefico per molte reazioni. Tuttavia, la durezza va interpretata alla luce dell’alcalinità. L’alcalinità (o potere tampone) misura la capacità dell’acqua di resistere a un abbassamento di pH, ed è dovuta principalmente alla presenza di bicarbonati, carbonati e idrossidi. È come se l’acqua avesse una sua “inerzia” chimica. Un’acqua con alta alcalinità (ricca di bicarbonati) tenderà a mantenere un pH alto anche quando leggermente acidificata, ad esempio dagli acidi naturali del malto. Questo è un problema per la produzione di birre chiare (Pilsner, Helles, Pale Ale), dove un pH di mash ideale si aggira tra 5.2 e 5.5. Un pH troppo alto (superiore a 5.8) inibisce parzialmente gli enzimi, riduce l’efficienza di estrazione, favorisce l’estrazione di tannini e silice (con possibili problemi di chill haze) e produce un mosto meno stabile. Al contrario, per birre scure dove si utilizzano malti altamente tostati (come chocolate o black malt), questi malti sono naturalmente acidi. In questo caso, un’acqua con una certa alcalinità è utile per contrastare questa acidità e portare il pH del mash nella giusta finestra, evitando un mosto eccessivamente acido. Il pH del mash, quindi, non è una proprietà intrinseca dell’acqua, ma il risultato dinamico dell’interazione tra l’alcalinità dell’acqua e l’acidità dei malti utilizzati. L’obiettivo del birraio è manipolare questo equilibrio. Si può agire sull’acqua, riducendone l’alcalinità tramite bollitura (che precipita i bicarbonati come calcare), diluizione con acqua distillata/osmosi, o aggiunta di acidi alimentari (acido lattico, acido citrico). Oppure, si può agire sul grist, incorporando una piccola percentuale di malto acidificato (acidulated malt), che rilascia acido lattico durante l’ammostamento. Capire questo triangolo è la chiave per passare dal seguire ricette in modo meccanico al padroneggiare veramente il processo, adattando qualsiasi acqua di partenza allo stile desiderato. Un controllo attento del pH influisce anche su aspetti come la stabilità della schiuma e la percezione dell’amaro, temi approfonditi nella nostra guida su pH e birrificazione.

Analisi dell’acqua: il primo, indispensabile passo

Agire alla cieca sull’acqua del rubinetto è un azzardo. Il passo zero, imprescindibile e che ripaga sempre l’investimento, è conoscere con precisione il proprio punto di partenza. Ottenere un’analisi chimica dettagliata della propria acqua di rete è il fondamento di qualsiasi intervento successivo. Esistono diversi livelli di approccio. Il più semplice è richiedere la scheda di caratterizzazione dell’acqua al proprio gestore idrico locale (il comune o la società di erogazione). Per legge, questi enti devono rendere pubbliche le analisi periodiche, che solitamente includono i parametri di base: durezza totale, calcio, magnesio, sodio, cloruri, solfati e alcalinità. Questi dati forniscono un’ottima fotografia media, ma hanno un limite: rappresentano la composizione dell’acqua all’uscita dal depuratore centrale, non al tuo rubinetto. Il viaggio attraverso le tubature cittadine e domestiche può alterare alcuni parametri, soprattutto per quanto riguarda il rame o il ferro che possono provenire da tubazioni vecchie. Per una precisione assoluta, soprattutto per un microbirrificio che punta alla coerenza produttiva, l’opzione migliore è inviare un campione della propria acqua prelevata direttamente dal punto di uso a un laboratorio di analisi specializzato in acqua o in prodotti alimentari. Il costo non è proibitivo e fornisce un report esaustivo che include tutti i cationi e anioni rilevanti, oltre a parametri come silice, nitrati e conducibilità. Per l’homebrewer più appassionato, esistono anche kit di test colorimetrici o strumenti digitali (come misuratori di TDS, pH-metri e test per durezza KH/GH) che, pur non raggiungendo la precisione di un laboratorio, permettono di farsi un’idea attendibile dei parametri chiave e di monitorare le variazioni. Una volta in possesso dei dati, si possono usare software o fogli di calcolo per la costruzione di ricette (come BeerSmith o Brewfather) per simulare l’impatto della propria acqua su una determinata ricetta e calcolare gli aggiustamenti necessari. Questa fase di analisi e pianificazione è ciò che separa la birra casalinga buona dalla birra artigianale eccellente e ripetibile. Essa è parte integrante di un approccio scientifico che un vero appassionato sviluppa, magari partendo da una conoscenza base degli ingredienti della birra per arrivare a padroneggiarne le interazioni più fini.

Trattamenti pre-bollitura: dalla semplice declorazione alla filtrazione avanzata

Una volta composta l’analisi, si può procedere con i trattamenti necessari per preparare l’acqua del rubinetto al suo ruolo brassicolo. Questi trattamenti hanno obiettivi diversi: rimuovere sostanze indesiderate, modificare la composizione minerale, o entrambe le cose. Come già approfondito, la declorazione è il trattamento minimo. Per le clorammine, l’aggiunta di una punta di spatola di metabisolfito di potassio è la soluzione più economica ed efficace. Per chi desidera un approccio più “fisico” e senza additivi, l’installazione di un filtro a carboni attivi sotto il lavello è un’ottima soluzione. Questi filtri, se dimensionati correttamente e sostituiti con la frequenza indicata dal produttore, rimuovono cloro, clorammine, e in parte anche alcuni composti organici volatili che potrebbero dare off-flavour. Tuttavia, i filtri a carboni attivi standard non modificano la durezza o l’alcalinità dell’acqua. Per ridurre drasticamente il contenuto di sali disciolti, si può ricorrere a due metodi principali. Il primo è la diluizione con acqua a mineralizzazione nulla. Acquistare acqua distillata o da osmosi inversa al supermercato e mescolarla con la propria acqua di rubinetto è un modo semplice per abbassare proporzionalmente tutti i parametri. Ad esempio, un mix 50/50 dimezza la concentrazione di ogni ione. Questo approccio è flessibile e permette di “ammorbidire” un’acqua molto dura senza doverla completamente ricostruire. Il secondo metodo, più radicale e costoso, è l’acquisto di un impianto a osmosi inversa domestico. Questi dispositivi spingono l’acqua attraverso una membrana semipermeabile che trattiene la stragrande maggioranza dei sali disciolti, dei metalli pesanti e di altri contaminanti, producendo un’acqua molto pura, vicina all’acqua distillata. Partire da acqua ad osmosi inversa offre al birraio il massimo controllo: si parte da una “tela bianca” (acqua con sali quasi a zero) a cui si aggiungono solo i sali necessari per ricreare il profilo ideale per lo stile scelto, tramite l’uso di sali da birra come solfato di calcio (gesso), cloruro di calcio, solfato di magnesio (sali di Epsom) e cloruro di sodio (sale non iodato). Questo metodo, chiamato spesso “ricostruzione”, è la via maestra per la massima precisione e ripetibilità, ed è la scelta di molti microbirrifici artigianali seri. La scelta del trattamento dipende dal bilancio tra investimento, comodità e livello di controllo desiderato. Per un microbirrificio, la scelta di un sistema di trattamento acqua efficiente rientra in un più ampio piano di manutenzione preventiva dell’impianto.

Aggiustare il profilo: introduzione ai sali da birra e alle tecniche di burtonizzazione

Con un’acqua analizzata e eventualmente ammorbidita, si arriva alla fase creativa: modellarne il profilo minerale per adattarlo a una specifica ricetta. Questo processo si basa sull’aggiunta selettiva di sali alimentari puri. La pratica storica di aggiungere gesso (solfato di calcio) all’acqua per replicare il carattere delle celebri Pale Ale di Burton-upon-Trent ha dato il nome al processo: burtonizzazione. Oggi il termine si è esteso a indicare qualsiasi aggiustamento del profilo ionico. I sali più comuni nello scaffale del birraio sono: Solfato di Calcio (CaSO₄ • 2H₂O), noto come gesso: aggiunge calcio e solfati. È l’ideale per birre che richiedono un amaro nitido e una sensazione asciutta, come le IPA e le American Pale Ale. Cloruro di Calcio (CaCl₂): aggiunge calcio e cloruri. È perfetto per esaltare la dolcezza maltata, la pienezza e la rotondità di Stout, Porter, Marzen e molte birre belghe. Solfato di Magnesio (MgSO₄ • 7H₂O), o Sali di Epsom: fornisce magnesio e solfati. Il magnesio è un cofattore enzimatico, ma si usa con parsimonia per evitare sapori sgradevoli. Cloruro di Sodio (NaCl), sale da cucina non iodato: in piccole quantità (50-150 mg/L) accentua la dolcezza e la percezione di corpo, specialmente in birre come le Gose, dove il sale è un ingrediente caratterizzante. L’arte sta nel dosare questi sali per raggiungere un obiettivo di concentrazione per ogni ione. Ad esempio, un profilo classico per una West Coast IPA potrebbe puntare a 150-200 ppm di solfati, 50-100 ppm di cloruri, e 100-150 ppm di calcio. Per una Malt-forward English Bitter, si ridurrebbero i solfati a 50 ppm e si aumenterebbero i cloruri a 100 ppm, mantenendo un calcio adeguato. Gli strumenti di calcolo per birrai sono indispensabili per eseguire queste aggiunte in modo preciso, tenendo conto anche del contributo dei sali già presenti nell’acqua di partenza. È fondamentale aggiungere i sali direttamente all’acqua di mash, o al massimo in fase di boil, per garantire la loro completa dissoluzione e reattività. Questa manipolazione consapevole dell’acqua è l’apice del controllo del birraio sul prodotto finale e dimostra una profonda comprensione del legame tra l’acqua e lo stile birrario.

Casi studio: quando l’acqua di rete diventa una risorsa

Per concretizzare i concetti, esaminiamo due ipotetici scenari reali. Il primo caso riguarda un homebrewer di Milano. L’acqua milanese è tipicamente di media durezza e con un’alcalinità moderata, derivante da fonti miste di falda e superficie. Un’analisi rivela: Calcio 80 ppm, Magnesio 20 ppm, Solfati 50 ppm, Cloruri 30 ppm, Bicarbonati 200 ppm (alcalinità media). Quest’acqua, una volta declorata, potrebbe essere problematica per una Pilsner tedesca, che richiede acqua molto dolce. La soluzione? Diluire con il 50% di acqua da osmosi. Il mix risultante avrà parametri dimezzati: Calcio 40 ppm, Bicarbonati 100 ppm. A questo punto, per raggiungere il profilo di una Pilsner classica (acqua molto povera di minerali), si potrebbe anche optare per una diluizione al 75% con osmosi, partendo quasi da zero e aggiungendo un pizzico di cloruro di calcio per garantire l’attività enzimatica. Per una Porter, invece, la stessa acqua di partenza potrebbe andare benissimo. I bicarbonati aiutano a tamponare l’acidità dei malti scuri, e i cloruri presenti danno una base maltata. Forse si aggiungerebbero 1-2 grammi di cloruro di calcio per batch da 20 litri per aumentare leggermente la dolcezza percepita. Secondo caso: un piccolo birrificio artigianale a Roma. L’acqua romana, famosa per essere “dura”, proviene principalmente da sorgenti appenniniche. Un’analisi mostra valori elevati di calcio (120 ppm) e bicarbonati (300 ppm). Quest’acqua è splendidamente adatta a birre scure e robuste come Imperial Stout o Belgian Dubbel, stili presenti in un catalogo selezionato come quello de La Casetta Craft Beer Crew, che include proprio una pregevole Belgian Dark Strong Ale. In questo caso, l’acqua locale diventa un vantaggio competitivo, un’impronta territoriale. Per produrre una American Pale Ale o una IPA più leggera, il birrificio potrebbe investire in un impianto a osmosi inversa, partendo da acqua pura e ricostruendo profili più leggeri con l’aggiunta di gesso per le IPA, dimostrando flessibilità senza rinunciare alla qualità di base della propria acqua sorgiva. Questi esempi mostrano come non esistano acque “buone” o “cattive” in assoluto, ma solo acque più o meno adatte a uno stile, e come la conoscenza e la tecnologia permettano di colmare qualsiasi divario. La scelta di utilizzare l’acqua di rete, quindi, se trasforma da limite a opportunità di esprimere anche attraverso questo elemento la propria filosofia produttiva, magari puntando su una produzione sostenibile e a kilometro zero.

Domande frequenti sull’uso dell’acqua del rubinetto nella birra

Posso usare l’acqua del rubinetto senza fare nessun trattamento?
È sconsigliatissimo. Anche se il sapore del cloro non si percepisce nell’acqua da bere, durante la bollitura e la fermentazione le reazioni chimiche possono esaltare e fissare i clorofenoli, rovinando irreparabilmente l’aroma della birra. La declorazione è il trattamento minimo obbligatorio.
L’acqua delle caraffe filtranti è adatta?
Le caraffe filtranti standard (es. Brita) riducono parzialmente cloro, calcare e alcuni metalli, ma non forniscono un controllo preciso sulla composizione. Possono essere un primo passo per migliorare un’acqua molto dura, ma i loro effetti sono variabili e non garantiscono la rimozione completa delle clorammine. Per birrificazione seria, sono preferibili metodi più controllati.
Come faccio a sapere se la mia acqua è adatta per le IPA?
Non esiste una risposta universale. Le IPA, specialmente quelle West Coast, apprezzano acque con un contenuto moderato-alto di solfati (100-250 ppm) che esaltano l’amaro e la secchezza, e un adeguato livello di calcio (50-150 ppm). Analizza la tua acqua e confrontala con questi target. Molto probabilmente dovrai aggiungere gesso (solfato di calcio) per aumentare sia il calcio che i solfati.
L’acqua in bottiglia naturale è una buona alternativa?
Sì, ma con cautela. Leggi l’etichetta analitica. Scegli acque a bassa mineralizzazione (residuo fisso inferiore a 100 mg/L) se vuoi ricostruire tu il profilo. Evita acque minimamente o frizzanti. Può diventare costoso per batch grandi, ma è un’opzione valida per l’homebrewer che non vuole investire in filtri.
Perché la mia birra ha un retrogusto metallico? Potrebbe essere l’acqua?
Il sapore metallico può derivare da diversi fattori: attrezzature in acciaio non inossidabile o mal condizionate (ferro), uso di integratori vitaminici del lievito ricchi di zinco, o appunto un eccesso di certi metalli nell’acqua di partenza (ferro, manganese). Un’analisi dell’acqua può escludere o confermare questa causa.
Devo trattare anche l’acqua che uso per il lavaggio e la sanificazione?
Per il risciacquo finale di attrezzature e bottiglie dopo la sanificazione, è altamente consigliabile usare acqua priva di cloro/clorammine (ad esempio, acqua bollita e raffreddata o filtrata a carboni attivi). Residui di disinfettante nell’acqua di risciacquo possono permanere sulle superfici e contaminare la birra.
Un sistema di addolcitore domestico a scambio ionico produce acqua adatta alla birra?
No, anzi. Gli addolcitori sostituiscono gli ioni calcio e magnesio (che causano il calcare) con ioni sodio. Ottenete un’acqua “morbida” ma caricata di sodio, che può conferire un sapore salato e non fornisce il calcio necessario al processo. L’acqua da addolcitore non è adatta per la birra se non viene successivamente trattata.

Questo articolo si basa su informazioni verificate e principi chimici consolidati. Per analisi precise della propria acqua, si consiglia sempre di rivolgersi a laboratori specializzati. La scelta e il trattamento dell’acqua sono passi fondamentali per la qualità e la sicurezza del prodotto finale. Per servizi professionali di fornitura e manutenzione per la tua attività, come un servizio di pulizia spillatore birra o la soluzione perfetta per un evento speciale come un angolo spillatore birra per matrimonio, puoi contare su partner esperti nel settore.

tl;dr

L’acqua del rubinetto può essere utilizzata per fare la birra, ma richiede consapevolezza e trattamento. Il passaggio obbligatorio è la rimozione di cloro e clorammine (con metabisolfito o filtrazione) per evitare difetti gravi. La sua idoneità dipende dal profilo minerale (durezza, alcalinità) che va analizzato. Acque dure/alcaline sono buone per birre scure, ma vanno corrette (diluite, acidificate) per birre chiare. La massima precisione si ottiene partendo da acqua demineralizzata (osmosi) e ricostruendo il profilo ideale con sali specifici (gesso, cloruro di calcio).

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5 commenti

  1. Fabio Microbirraio

    Confermo al 100% quanto scritto. Nel nostro microbirrificio abbiamo iniziato con l’acqua di rete e, dopo molte sperimentazioni, siamo passati all’osmosi inversa con ricostruzione. La differenza in termini di controllo e ripetibilità è stata abissale. Un investimento iniziale che si ripaga in qualità.

  2. Grazie per la chiarezza. Una domanda sul caso studio di Roma: se l’acqua è così dura, come fanno i birrifici romani a produrre Lager decenti? Devono per forza avere un impianto di osmosi? Esistono tecniche alternative più economiche per piccole produzioni?

    • @Anna Curiosa, alcuni birrifici usano la diluizione con acqua a bassissimo residuo acquistata in tank. Oppure, per piccoli batch, si può bollire l’acqua (per precipitare parte dei bicarbonati), lasciarla decantare e usare solo la parte superiore, poi diluire. È meno preciso, ma funziona. Comunque, per una lager che deve essere perfetta, l’osmosi è la strada. Articolo molto tecnico e utile!

  3. Complimenti per l’approfondimento chimico, raro da trovare in italiano. Solo una piccola precisazione: quando si parla di “durezza”, nel contesto birrario è meglio riferirsi sempre alla durezza carbonatica (KH) per l’effetto sul pH, e alla durezza permanente per Calcio+Magnesio. Per chi volesse approfondire, il testo di Palmer & Kaminski citato è davvero la bibbia.

  4. Ho sempre usato l’acqua del rubinetto dopo averla fatta bollire, pensando di togliere il cloro. Ora scopro che forse avevo le clorammine! Questo spiega il leggero sentore “medicinale” in alcune mie birre. Da oggi proverò col metabisolfito. Grazie!

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